Non c’è parola più abusata, nel discorso pubblico, di “cambiamento”. E non solo per l’abnorme utilizzo da parte dei 5Stelle che, come tutti i movimenti nascenti, ha scelto una parola simbolo per farne un cardine della sua neolingua (vedi “governo del cambiamento”).
Parola ambigua il “cambiamento”. Ambigua perché presume un miglioramento e occulta la possibilità del peggioramento. Ogni cambiamento, infatti, porta in sé tanto il germe della positività quanto quello della negatività. E troppo dipende dalla percezione, che è sempre personale, rispetto alla realtà fattuale. Percezione spesso volutamente distorta attraverso meccanismi (anche fake news) che gonfiano le ansie individuali, familiari e di comunità. In un ciclo perverso di cui si avvantaggiano quanti intravedono nelle paure personali, sociali e comunitarie, i vettori di un nuovo consenso politico.
Non è un caso che la parola cambiamento faccia la parte del leone nel discorso pubblico di quanti hanno fatto la scelta della disintermediazione. Così che il rapporto diretto fra leader e popolo non venga mediato da alcuno (tanto meno dall’informazione “asservita” ai vecchi poteri) e possa fluire direttamente senza alcuna forma di mediazione, considerata una sostanziale superfetazione.
Non è un caso neppure che la parola cambiamento abbia successo anche in ambiti molto lontani dalla vita politica italiana. Basta una scorsa alle esternazioni di Papa Francesco per ritrovare una quantità incredibile di citazioni, a partire dalla famosissima espressione “questa non è un’epoca di cambiamenti, ma piuttosto un cambiamento d’epoca” (Firenze, novembre del 2015). Il termine ricorre in un’infinita serie di suoi discorsi e interventi, tanto da avvalorare l’immagine della “Chiesa del cambiamento”. Di sicuro, il cambiamento è una delle parole cardine del Pontificato. Fra le più diffuse e le più citate, così da offrire la sensazione che se non si cambia, non si è al passo col tempo nuovo della Chiesa.
Il fascino del cambiamento ha spodestato nel discorso pubblico altre parole. Una per tutte sul fronte civile: riforma. Parola usurata perché non percepita come garanzia di miglioramento. Pensiamo, giusto per fare un esempio recente, alla riforma Fornero: l’odio sociale per l’ex ministro ha travolto anche il termine riforma, non meno vilipeso. Per non parlare della riforma costituzionale bocciata con il referendum del 4 dicembre 2017.
Dunque, con sovrana abilità, i 5Stelle hanno adottato la parola cambiamento (riforma è fuori corso) e Papa Francesco l’ha preferita, forse, a conversione. Cambiare è meno che riformare e convertire. E comunque sottolinea l’aspettativa di un mondo nuovo, ma a costo più basso. E alla portata dei più.
Queste osservazioni urteranno la sensibilità dei sostenitori dei 5Stelle e di Francesco. Ma è la nostra laicità che ci spinge a non fidarci delle neolingue. Anche quelle ispirate dalle più nobili intenzioni, come nel caso dei grillini e dei fan di Francesco. Che poi tutti loro siano protagonisti della disintermediazione globale, e al tempo stesso di un nuovo e inevitabile processo di accentramento e concentrazione del potere, non è un caso. A tutti noi, semplici riformisti, vale la pena ricordare cosa fa dire Tomasi di Lampedusa a Tancredi, nipote prediletto del principe Fabrizio Salina nel Gattopardo: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”.