Non bastasse il peso del mattone a gravare i bilanci delle banche italiane, negli ultimi cinque anni si è aggiunto un altro fardello che mette a rischio lo stato di salute dei nostri istituti di credito: i bond sovrani.
Uno studio recente del Fondo monetario calcola che dal primo trimestre 2006 al terzo trimestre 2012 l’esposizione bancaria italiana verso i nostri titoli di stato è passata da circa il 10% del totale degli asset bancari a quasi il 15%, ossia al livello in cui si trovavano le banche greche nel 2006, prima dell’haircut.
Un incremento di quasi il 50%.
Peggio dell’Italia stanno solo la Repubblica Ceca, che si avvia verso il 20%, e il Giappone, che ormai sfiora il 25%.
Per dare un’idea di come va (o dovrebbe) il mondo “sano”, basti considerare che Svizzera e Germania, Canada e Francia hanno diminuito anziché aumentato l’esposizione bancaria ai titoli sovrani.
Se a questo 15% di esposizione delle banche nostrane sui bond sovrani aggiungiamo l’oltre 30% dell’esposizione sul mattone (dato Bankitalia del 2009), si stima che circa la metà degli asset bancari italiani totali siano investiti su mattone e titoli di stato. Ciò che una volta veniva considerato sicuro e che oggi invece fra tremare le vene dei polsi.
Del mattone abbiamo già detto la settimana scorsa, quando abbiamo parlato di come la vigilanza della Banca d’Italia abbiamo imposto agli istituti bancari la svalutazione prudenziale di molti attivi.
Dei titoli di Stato, invece, bisognerà occuparsi prima o poi. Quando, vale a dire, le banche centrali cesseranno di fare politiche monetarie accomodanti e torneranno a stringere i cordoni del credito.
La famosa exit strategy.
Sul momento in cui partirà questa exit strategy le opinioni si sprecano. Ma gli occhi sono puntati sul mercato del lavoro americano, da quando la Fed ha detto che manterrà le politiche di allentamento del credito almeno fino a quando la disoccupazione non arriverà al 6,5%. Gli ultimi dati pubblicati la settimana scorsa la collocano al 7,6%. Quindi ci vorrà ancora un po’ di tempo.
Senonché a volte la cura rischia di essere peggiore del male.
Il Fondo monetario monitora con attenzione i rischi connessi all’allargarsi ormai smisurato dei bilanci delle banche centrali. Se il presidente del Fondo Monetario Lagarde plaude alla decisione giapponese di pompare ancor più credito nel sistema, i tecnici notano con preoccupazione che il protrarsi di tali politiche rischia di generare esternalità negative non solo sulla banche, ma anche sui fondi pensioni, le assicurazioni e i paesi periferici, che possono soffrire di squilibri valutari, deflussi di capitali e bolle sugli asset.
Sulle banche un rialzo dei tassi d’interesse (che prima o poi arriverà) ha di solito un effetto positivo sui margini d’interessi netti. Il che è facilmente comprensibile: se i tassi aumetano, aumentano anche i ricavi connessi ai prestiti.
Senonché ciò che la teoria afferma cozza con la pratica invalsa negli ultimi sei anni di gonfiare i bilanci delle banche di titoli di stato sovrani. Sempre la teoria, infatti, ci dice che un aumento dei tassi d’interesse provoca un calo del valore dei titoli esistenti. Quindi se le banche hanno molti titoli in pancia al momento dell’aumento dei tassi, il loro valore capitale rischia una dolorosa riduzione, mettendo a rischio i parametri patrimoniali degli istituti. Attenzione: questo non vale solo per le banche commerciali, ma anche per le stesse banche centrali, imbottite come sono di bond sovrani per tenere bassi i tassi.
Un’esagerazione? Magari.
Il fondo monetario calcola che un incremente ipotetico dei tassi d’interesse dal 2 al 4% può provocare perdite fino al 16% sul valore di mercato dei bond a dieci anni.
Il caso del Giappone è quello più eclatante. Un aumento del tasso lungo tutta la curva dei rendimenti dell’1% si stima possa provocare una contrazione del mark-to-market value del 20% del Tier 1 sulle banche regionali e del 10% sulle banche principali.
Questo per quelli che sono contenti quando il Giappone aumenta gli acquisti di bond sovrani.
E veniamo a noi. Sempre il Fmi, su dati forniti dalla Banca d’Italia, stima che un incremento di 200 punti base (il 2%) sui tassi potrebbe costare alle banche italiane il 7,7% del loro capitale, come combinato disposto fra i guadagni derivanti dall’aumento dei tassi e le perdite provocate dal calo dei corsi dei bond.
Dall’exit strategy all’exit tragedy ci vuole davvero poco.