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Pubblichiamo grazie all’autorizzazione dell’autore il pezzo di Francesco Damato uscito sul quotidiano Il Tempo

A distanza di più di 40 anni dal suo barbaro assassinio, avvenuto sotto casa a Milano la mattina del 17 maggio 1972, è giustamente ancora vivo il ricordo del commissario di Polizia Luigi Calabresi. Che pagò con la vita una campagna di denigrazione e di odio condotta contro di lui da Lotta Continua dopo la morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli: un suicidio al quale non si volle credere per le drammatiche circostanze in cui era avvenuto la sera del 15 dicembre 1969, con una caduta dalla finestra della stanza di Calabresi, al quarto piano della Questura milanese, dopo due giorni di fermo per la strage di Piazza Fontana. Dove una bomba in banca aveva provocato 17 morti e 88 feriti.

ACCUSE INFONDATE
Nonostante la campagna d’odio di Lotta Continua, di cui poi si sarebbe onestamente assunta la “responsabilità morale” il direttore dell’omonimo giornale, Adriano Sofri, risultò subito la infondatezza delle accuse rivolte al povero Calabresi, peraltro assente dal suo ufficio nel momento della caduta di Pinelli nel cortile. Ma non valse neppure il giudizio di un magistrato destinato a diventare dopo molti anni un senatore della sinistra, Gerardo D’Ambrosio, a mettere Calabresi al riparo dai dubbi e dalle minacce di vendetta.

ODIO E SOSPETTI
Purtroppo neppure la morte –e che morte- riuscì per molto tempo a placare davvero l’odio e il sospetto a carico del commissario. A distanza di quasi vent’anni, nel 1990, mi sentii contestato alla direzione del Giorno per avere voluto interrompere l’abitudine di pubblicare ad ogni anniversario della morte di Pinelli un vecchio e affollato manifesto d’intellettuali e politici diffuso sull’onda emotiva della fine dell’anarchico, quando si pensava che Calabresi ne fosse stato praticamente il colpevole per il trattamento riservato al fermato dopo la strage di Piazza Fontana.

UNA LODEVOLE INIZIATIVA
Anche in considerazione di quei ricordi ancora duri a morire a sinistra nel 1990, mi sembra lodevole ogni iniziativa tesa a riproporre ancora oggi, come sta facendo la Rai, la figura di Calabresi nella luce positiva che merita: un eroe cristallino del servizio allo Stato, giustamente già insignito alla memoria della medaglia d’oro al merito civile e un martire cristiano, ora “servo di Dio”, di cui è in corso il processo di beatificazione.

LETTURA OFFUSCATA
C’è tuttavia qualcosa che continua ad offuscare una lettura finalmente giusta di quella lontana e funesta vicenda. E’ la perdurante incredulità di tanta cultura e militanza di sinistra, vecchia e nuova, anche di quella approdata a destra o dintorni nella cosiddetta Seconda Repubblica, per la condanna definitiva inferta per il delitto Calabresi ad Adriano Sofri, Giorgio Pietrostefani e Ovidio Bompressi: i primi due come mandanti e il terzo come esecutore, tutti accusati dal correo pentito Leonardo Marino e accomunati anche dalla pena a 22 anni di carcere. Una pena estinta per Sofri il 16 gennaio del 2012, ma scontata in buona parte fra semilibertà e domicilio per ragioni obbiettive di salute.

LA FIGURA DI SOFRI
Sofri, come anche Pietrostefani e Bompressi, hanno sempre proclamato la loro innocenza. In più, Sofri orgogliosamente non volle neppure ricorrere contro la prima condanna in secondo grado, pur beneficiando, agli effetti della sospensione della pena, dei ricorsi dei coimputati. Ed altrettanto orgogliosamente ha poi rifiutato, diversamente da Bompressi, di chiedere la grazia, pur sapendo che avrebbe potuto ottenerla da più di un presidente della Repubblica per il credito conservato come opinionista e scrittore a sinistra, e poi anche a destra, come ho già accennato. Un credito che ne garantisce, fra l’altro, la collaborazione a due giornali che politicamente non potrebbero essere più distanti come la Repubblica fondata da Eugenio Scalfari e Il Foglio del suo amico Giuliano Ferrara.
Eppure la condanna definitiva di Sofri, e dei suoi amici di Lotta Continua, arrivò nel 1997 dopo un passaggio di primo grado, tre di appello e tre di Cassazione. Cui seguì anche un tentativo fallito di revisione processuale.

IL CASO BERLUSCONI
Mi chiedo, alla luce di ciò che è accaduto e sta tuttora accadendo ad un altro imputato, naturalmente Silvio Berlusconi, e anche a costo di procurarmi improperi a sinistra e a destra, vecchia o nuova che sia, per quale motivo soltanto per Sofri, e i suoi compagni di lotta, di scrittura e di lettura, si possa dubitare dei verdetti giudiziari. E vendicare in qualche modo i condannati coprendoli di solidarietà e di stima, pari evidentemente solo al discredito che meriterebbero gli autori della condanna, cioè i giudici. Ah, a saperlo.

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