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La Germania è in pieno boom. Per la prima volta nella storia della Repubblica Federale, in settembre il numero degli occupati ha superato la cifra record di 42 milioni, mentre il tasso di disoccupazione resta stabile al 6,5%. Secondo dati dell’Unione delle Camere di Commercio e dell’Industria tedesche (DIHK – Deutsche Industrie- und Handelskammertag), le previsioni sono rosee anche per l’anno prossimo. Con una crescita prevista del Prodotto Interno Lordo dell’1,7%, nel 2014 saranno creati 250.000 nuovi posti di lavoro, molti dei quali nei settori più innovativi, motore dell’espansione economica di Berlino. Il contrasto con l’Italia, dove la disoccupazione ha raggiunto il livello record del 12,5% – il più alto di sempre – non potrebbe essere più dolorosamente stridente. Ancora più grave, il dato sulla disoccupazione giovanile, che tocca il 40%, e costringe a riflettere sulla capacità del nostro sistema di fornire le competenze necessarie al lavoro.

Questi dati, da soli, danno il senso della polemica che si è accesa – a seguito della pubblicazione del rapporto semestrale sulle valute del Tesoro americano lo scorso 30 ottobre – richiamando il fantasma di un’Europa a due velocità. Non a caso il documento ha attivato a Berlino un riflesso di difesa. La Germania, al pari della Cina, è accusata di destabilizzare l’economia mondiale. I crescenti surplus commerciali tedeschi ed una domanda interna relativamente debole, sarebbero causa di tendenze deflazionistiche sui mercati internazionali, e in ultima analisi, della crisi e della disoccupazione nei paesi del sud.

Entrato a gamba tesa nel dibattito economico europeo, il Tesoro americano rovescia la lettura ortodossa della crisi, con le formiche, i  virtuosi del nord, per una volta nel ruolo dei cattivi, e le cicale della periferia, tra le fila dei buoni. La questione, in un senso o nell’altro, è posta male.
Sono in discussione gli equilibri tra i partner della “casa comune europea”. Sul breve un surplus eccessivo – superiore al 6% del valore delle partite correnti – potrebbe tradursi nella decisione di Bruxelles di avviare una procedura di infrazione contro la Germania, costretta a pagare per eccesso di efficienza. Dal suo punto di vista, un paradosso.

La domanda di fondo, piuttosto, è un’altra. Quale Europa si intenda costruire; se un’Europa che viaggi ai ritmi dei campioni di produttività del continente, o rallenti gravata dal peso delle inefficienze di sistema dei paesi della periferia. Certo nessuno si augura un abbassamento dei minimi standard di crescita, efficienza e produttività che Berlino, forte del proprio ruolo leader nei mercati internazionali, ambisce a definire. Trovare la  ricetta per crescita sostenuta e creazione di lavoro non sembra facile. Di certo, la Germania sembra averne individuato almeno gli ingredienti. E l’innovazione è senz’altro tra questi.

Il mercato del lavoro oggi è strutturalmente mutato. L’automazione, le macchine, assumono un ruolo sempre più pervasivo, come ricorda il documentato “Race Against The Machine: How the Digital Revolution is Accelerating Innovation, Driving Productivity, and Irreversibly Transforming Employment and the Economy” di Erik Brynjolfsson e Andrew Macfee, ricercatori del MIT. Riproporre ricette antiche non servirà a fare fronte ai cambiamenti.

Per lavorare, servono competenze e saperi nuovi. Un ripensamento completo dei sistemi di formazione. Le parole magiche di questo mondo nuovo sono alfabetizzazione informatica, linguaggi per il “coding”, programmazione, condizioni sine qua non della “employability 2.0”. Il marketing si fa digitale, la gestione degli approvvigionamenti, la logistica, tutta l’impresa passa sul cloud e si smaterializza. Fasce di colletti bianchi destinati all’obsolescenza come gli operai dell’industria. In Italia è ancora preistoria.

Pubblicato il 22 ottobre, il „Global Innovation 1000“, della società di consulenza strategica austriaca Booz & Company, fa un ranking delle prime 1000 imprese quotate, a livello mondiale, per investimenti in R&S e per capacità di innovazione. Senza sorprese, lo studio sancisce la leadership della Germania. Tra i campioni elencati, le imprese italiane – con poche, lodevoli eccezioni – non si notano.

Sul podio, con oltre 11 miliardi di dollari investiti in ricerca e sviluppo, Volkswagen, apre la lista delle 44 aziende tedesche che si piazzano tra le primi 100, sull’olimpo mondiale dell’innovazione. Oltre a Volkswagen, Daimler (14), Siemens (22), BMW (27), Bayer (40), SAP (49), Continental (65), BASF (66) Merck (74). I tedeschi sono anche dove non si vedono. È il caso del produttore di auto elettriche TESLA, partecipato da Daimler. L’analisi dei settori industriali più innovativi segna  ancora più marcatamente lo scarto con la situazione italiana. Industria, un tempo detta pesante. Automotive, chimica, energia, macchine utensili, biomedicale, farmaceutica, oltre, chiaramente, ICT e elettronica.

Il tutto, mentre da noi è in atto un processo di desertificazione industriale, alimentato da un nuovo pensiero unico di matrice “ecologista” – la distruzione dell’acciaio, all’ILVA – rivendicazioni neo-luddistiche,  o dalle scelte scellerate degli stessi attori industriali.
Così, mentre in Germania il settore automotive, con VW, BMW, Daimler, sperimenta sull’elettrico o con  business model alternativi  – per tutti, la scommessa di Daimler sul car-sharing integrato della joint venture Car2Go -,  la FIAT, in Italia, si tira fuori dalla partita. Soprattutto, l’innovazione è sistema. E non ci sono solo i grandi gruppi multinazionali. Le PMI in Germania costituiscono il 99% del sistema industriale del paese. E sono tra le più innovative d’Europa.

Secondo dati del Ministero Federale dell’Economia e della Tecnologia, sono 1307 i “campioni nascosti”, ovvero, le piccole e medie imprese che con i loro prodotti hanno conquistato e mantengono posizioni di leadership in nicchie di mercato a livello globale. 366 in America, 76 in Italia, 75 in Francia. Altro dato significativo, tra il 2008 e il 2012, il 54% delle PMI tedesche ha sviluppato e introdotto almeno un’innovazione sul mercato. In questo contesto, queste aziende danno lavoro ad oltre 15,5 milioni di addetti, e concorrono in modo sostanziale alla formazione, attraverso stage e un modello di apprendistato realmente efficace.

La risposta alla crisi del lavoro in Italia, non si gioca quindi sulla contrapposizione. Piuttosto, passa per le opportunità dell’integrazione e dalla convergenza delle diverse aree economiche e produttive, delle singole aziende. Forse anche dalla costruzione di progetti congiunti con partner tedeschi. Una strada che – nella mia attività professionale – sto cercando di battere, con proposte concrete. Fra tutti, un progetto di mobilità sostenibile, predisposto da una software house amburghese per le pubbliche amministrazioni italiane, o piloti di formazione per apprendistato, destinati a studenti di istituti professionali o laureandi, nel settore ICT.

In quest’ottica, anche la via di Berlino, declinata sull’austerità, sembra meno egoista e miope di quanto noi non siamo forse pronti a riconoscere.

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