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I requisiti richiesti a uomini e donne per l’accesso alla pensione devono essere uguali. Sulla base di questo principio,la Commissione europea ha aperto in ottobre, la procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia. Secondo i servizi che fanno capo al commissario europeo alla giustizia Viviane Reding – titolare del dossier – la norma italiana (che dovrebbe entrare in vigore a partire dal gennaio prossimo) è in contrasto con l’articolo 157 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea che stabilisce la parità di trattamento tra uomini e donne. E va anche al di là dei margini di manovra lasciati ai Paesi dalla direttiva varata dall’Ue nel 2006. La norma a noi contestata è quella contenuta nella legge 214/2011 (conversione del Dl 201/2011) che prevede che per ottenere il pensionamento anticipato sia necessario 41 anni e 3 mesi per le donne e 42 anni e 3 mesi di contributi per gli uomini.

Secondo le indicazioni arrivate dalla Commissione europea la legge è in contrasto con l’articolo 157 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea che stabilisce la parità di trattamento tra uomini e donne per quanto riguarda la retribuzione. Bruxelles ha avviato la procedura, che consiste nella messa in mora dell’Italia, e l’invio di una lettera al governo contenente il dettaglio dei punti contestati e la richiesta di spiegazioni. E da tale documento si deve capire quali sono gli elementi specifici ritenuti non coerenti con il Trattato che non fa riferimento diretto alle pensioni ma attenzione, alla retribuzione. Così per la seconda volta il nostro Paese finisce nel mirino della Commissione europea in materia di requisiti per l’accesso alla pensione.

Nel 2008 l’Italia è stata condannata dalla Corte di giustizia dell’Ue per i differenti requisiti applicati ai dipendenti pubblici: l’accesso alla pensione di vecchiaia era consentito a 60 anni per le donne e a 65 per gli uomini. In tale occasione la Corte aveva fatto riferimento a quello che allora era l’articolo 141 del Trattato, in base al quale è vietata qualsiasi discriminazione in materia di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e di sesso femminile. La pensione in tal caso venne equiparata alla retribuzione. La previsione di un’età differente per il pensionamento era in contrasto con tale principio e, argomentava la Corte, i governi nazionali devono contribuire ad aiutare la donna a vivere la propria vita lavorativa su un piano di parità rispetto all’uomo, ponendo rimedio ai problemi che possono incontrare durante la carriera professionale. Per non incorrere in una procedura d’infrazione con relativa condanna e sanzione economica, il Governo italiano nel 2010 ha innalzato i requisiti per il pensionamento delle dipendenti del settore pubblico, portandolo a 65 anni.

Per l’Italia potrebbe essere l’occasione per intervenire su uno dei punti più delicati favorendo per le donne la valorizzazione contributiva per i periodi di lavoro di cura senza per questo pensare di ritenere il lavoro di cura un lavoro paragonato ai lavori usuranti, ma sostenendo un Fondo bilaterale contrattuale con versamenti contributivi figurativi per i periodi dedicati al tempo di cura e dunque come forma di sostegno al reddito della lavoratrice. Senza credibilmente pensare che sia possibile una inversione di rotta da parte della Commissione Europea come qualcuno invoca e cioè che la UE abbassi anche per gli uomini i periodi contributivi per il pensionamento anticipato. Meglio stare con i piedi per terra e riconoscere il lavoro di cura come lavoro utile ai fini sociali e dunque finanziabile attraverso la bilateralità. La qualcosa ,oltretutto, non si presterebbe neanche a indagini punitive incardinate sulla disparità salariale ( che peraltro c’è anche se in minor misura in Italia rispetto agli altri Paesi Ue e anche questa nell’occhio degli accertamenti della Commissione) ma come sostegno alla conciliazione tempi di vita e di lavoro che è la priorità della commissione per il 2014.Una volta tanto facciamo i virtuosi!

La Ue insiste: previdenza senza requisiti di genere

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