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Ogni tanto torna alla ribalta della cronaca la secolare questione sull’origine della vita e del cosmo. E stupisce con quanta faciloneria venga liquidata, in nome e per conto di una visione “scientifica” (o scientista?) che vorrebbe fare piazza pulita di tutto il resto. A cominciare, ovviamente, dal cristianesimo, e in particolare dalla tesi cosiddetta creazionista che fa capo a Genesi 1. Sul punto, c’è una questione di metodo che, a mio avviso, non è stata sufficientemente approfondita. La domanda è: qual è la natura dei testi biblici? Vanno presi alla lettera oppure vanno letti sotto un’altra prospettiva? Da diversi decenni gli studi biblici hanno chiarito che il racconto mitologico (nel senso di “mito” come genere letterario, non di favola per bambini) di Genesi 1 risponde al “perché” della vita e dell’universo, e non del “come” ciò sia avvenuto. La visione monoteista, da cui quel testo è scaturito, afferma semplicemente che all’origine del creato c’è Dio in quanto causa prima. Di più non dice, e sbaglia chi – come spesso succede – attribuisce alla Bibbia significati che nulla hanno a che vedere con la sua genesi e la sua finalità. Tra l’altro, anche l’affermazione secondo cui la creazione sarebbe avvenuta in 6 giorni andrebbe come minimo contestualizzata alla luce dei più recenti studi biblici, da cui emerge  un quadro ben diverso da quello che comunemente si pensa. E’ ormai appurato che quel testo, risalente al periodo dell’esilio babilonese, fu scritto dalla classe sacerdotale. Più interessante è rispondere alla domanda sul perché i sacerdoti adottarono proprio lo schema 6+1 che in gergo tecnico si chiama “settenario” (peraltro rinvenuto in altri testi extra biblici). La risposta è semplice: in primis per una ragione liturgica, e in secundis per motivi politici. Nel racconto c’è un centro focale, un punto dove tutto converge, che è il 7° giorno, quando Dio si “riposò”. Ma nel calendario ebraico il 7° giorno coincide con lo Shabbat (che significa, appunto, riposo), cioè il giorno in cui i sacerdoti, e solo i sacerdoti, si recavano al Tempio per officiare il culto. Dunque il 7° giorno era il giorno si potrebbe dire per eccellenza della classe sacerdotale, e ciò spiega anche il motivo “politico”. Con l’affermazione della centralità del 7° giorno la classe sacerdotale poteva riacquistare agli occhi del popolo quella credibilità venuta meno con la disfatta dell’esilio. Non bisogna dimenticare infatti che i primi “colpevoli” dell’esilio babilonese furono ritenuti proprio i sacerdoti, a causa dei loro peccati contro Dio e contro il popolo denunciati dai Profeti. Insomma, una sorta di riabilitazione collettiva, o se vogliamo un’apologia del sacerdozio per riacquistare credibilità e autorevolezza. Questa la genesi storico-letteraria del testo “incriminato”, che ovviamente nulla toglie all’interpretazione teologica. Ma al di là di tutto, quando si discute su questa come su altre questioni che hanno a che fare con i testi biblici, bisognerebbe tenere presente che fede e scienza hanno statuti differenti che vanno rispettati. La fede dà una risposta alle domande ultime, al perché delle cose. La scienza, invece, cerca di scoprire come avvengono i fenomeni. Tra le due prospettive non c’è opposizione, e si può essere allo stesso tempo scienziati e/o credenti senza conflittualità (e la storia è ricca di esempi in tal senso). Non solo. Si può anzi affermare che senza la fede giudaico-cristiana la scienza moderna non sarebbe mai sorta. Partiamo da un presupposto elementare: la scienza, qui intesa nel senso di conoscenza (della natura, del mondo ecc.), si fonda su un principio molto semplice: non si può conoscere se non ciò di cui non si ha paura. Nell’antichità ciò che rendeva impenetrabile la natura, generando un senso di timore e di paura nell’uomo, era la presenza del sacro. La natura, ma anche il cosmo, essendo popolato di divinità aveva un carattere sacro,  e per questo l’uomo non poteva spingersi oltre un certo limite. Non solo, ma per ingraziarsi questa o quella divinità, o per placare l’ira del dio o della dea tal dei tali, l’uomo era costretto ad offrire sacrifici rituali.  Questa visione del rapporto uomo-divinità-natura è stata superata grazie all’affermazione del monoteismo giudaico, poi fatto suo dal cristianesimo, che ha “de-sacralizzato” la natura. Nel momento stesso in cui si afferma l’unicità di Dio, tutte quelle creature divinizzate che prima ostacolavano il legittimo desiderio di conoscenza dell’uomo, vengono ridotte al rango di semplici creature, e la natura viene vista sotto una luce nuova. Questo processo è chiaro fin dal primo capitolo del Genesi, soprattutto se lo si confronta con i racconti di creazione babilonesi, a cui si ispirarono gli scrittori biblici. Laddove per i babilonesi il sole, la luna e gli astri erano divinità, in Genesi 1 sono realtà create dall’unico Dio: importanti quanto si vuole per la vita dell’uomo, ma sono e restano creature senza alcuna connotazione sacra. Con l’affermazione del monoteismo la natura viene quindi secolarizzata, spogliata cioè di quell’alone di sacralità che prima la circondava. E questo passaggio, cioè il venir meno della paura nei confronti di forze oscure e divinità minacciose, ha coinciso con l’inizio della conoscenza. Quando poi il giudaismo entrò in contatto con il mondo ellenico, più portato alla speculazione e alla ricerca, si sviluppò quel felice connubio da cui nacquero le premesse teoriche che stanno alla radice della scienza moderna. E’ tipico di una certa visione positivistica della storia, purtroppo ancora oggi imperante, affermare che la scienza rappresenta l’antitesi della fede, questa intesa come superstizione. Ma questo non è che un pregiudizio bello e buono, consolidatosi nel corso dei secoli fino a diventare luogo comune. E come tutti i luoghi comuni, gli stereotipi e i pregiudizi, anche questo sul rapporto tra fede e scienza fa fatica a morire. A tutto discapito della verità.

 

Fede e scienza, un dialogo possibile

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