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Da quando gli squilibri dei sistemi finanziari internazionali hanno acceso il cerino della crisi, lo si è sentito ripetere spesso. Il sistema bancario italiano è più chiuso che altrove, basato su equilibri più conservativi e su “filosofia” di governance e strumenti più tradizionali. Queste caratteristiche hanno negli ultimi 15-20 anni impedito di valorizzare al meglio la leva finanziaria per la crescita del Paese, ma ci hanno anche fatto da scudo, nel 2007 e nel 2008, contro le ondate più forti della crisi. Banche e finanza meno aperte alla concorrenza, meno capaci di catalizzare crescita, ma almeno più solide, più solide che negli altri grandi partner europei, più solide che negli Usa.

Un giudizio che non può non essere rivisto adesso, perché quello che sta emergendo è un panorama molto più complesso del “semplice” trade-off tra stabilità e propensione al rischio imprenditoriale e alla crescita. La finanza innovativa e spericolata non è rimasta lontana dai confini italiani, è arrivata anche da noi ed è stata utilizzata per puntellare il più possibile proprio quegli equilibri chiusi e conservativi. Una strana e molto provinciale combinazione di tradizione e innovazione. Ed è sintomatico che questo mix abbia trovato culla fertile proprio nella banca che più di tutte ha simboleggiato, per oltre cinque secoli, la continuità nei metodi e nei mezzi, il legame viscerale col territorio, l’istituzione aggiunta a fianco al Comune, alla Provincia, alla Regione, la “stanza di compensazione” dei vari punti di vista sugli indirizzi politici e di politica economica.

Si è fatto ricorso ai derivati per tappare i buchi di questa continuità con la tradizione. Ci si è incamminati sul sentiero dell’innovazione della finanza sintetica proprio per allungare la vita alla governance vecchio stampo. Si è andati in Germania e addirittura in Giappone per il confezionamento dei prodotti complessi più adatti ad abbellire i bilanci, a diluire le perdite, a posticipare il redde rationem. Posizioni sui derivati sono state aperte, chiuse e ricontrattate, in una escalation che, a fronte di un po’ di ossigeno nell’immediato, aumentava esponenzialmente il rischio. Si scopre adesso, stando a quanto riportato dalla stampa, che alcuni dei derivati sono consistiti in “scommesse” sui titoli di Stato italiani, proprio nel frangente di maggior tensione sugli spread, un altro canale di confusione tra economia e politica, tra (sperato vantaggio) privato e (possibile maggior costo) pubblico.

Una simile situazione si è già presentata in Italia, qualche anno fa, con l’uso e l’abuso dei derivati da parte dei Comuni. Il fenomeno è stato bloccato per legge, dopo insistenti allarmi da parte della Corte dei Conti. Anche allora quello che venne fuori fu un singolare miscuglio di resistenze al cambiamento e di improvvisa fiammata di innovazione finanziaria, con quest’ultima che avrebbe dovuto risolvere o diluire i problemi di bilancio, e posticipare sia rendiconti della politica che riforme di struttura. In particolare, apparve quantomeno singolare quella combinazione, che allora venne alla ribalta, tra da un lato chiusure ideologiche alle aste per la selezione sul mercato del miglior gestore di servizi pubblici locali e, dall’altro, il ricorso ai mercati per acquistare prodotti sintetici frutto della più complessa ingegneria finanziaria. Prodotti tanto complessi che spesso se ne capiva solo l’up-front, l’anticipazione di cassa utile ai Comuni per tamponare gli squilibri, restando totalmente al buio la sottostante spirale di rischio.

In Italia, tra la fine del 2000 e la fine del 2011, i contratti derivati sono passati, in valori nominali, da 1.400 miliardi di dollari a circa 10.300 miliardi di Dollari (Banca d’Italia, “Rilevazione sui prodotti derivati over-the-counter”). Nel giro di 10 anni si sono decuplicati. L’esperienza di questi dieci anni ha mostrato, purtroppo, che dietro la significativa crescita di questi prodotti ad “alto potenziale” non ci sono stati solo e soltanto obiettivi di sana gestione del rischio e immunizzazione, ma anche tentativi di ottenere flussi finanziari fuori mercato per nascondere inefficienze di gestione  e situazioni di illecito, o per tutelare assetti proprietari e di controllo.

I derivati sono stati vietati agli enti locali. È stato correttamente deciso che casca al di fuori del mandato elettorale di politici e amministratori stipulare contratti dai profili finanziari e di rischio ai limiti dell’indecifrabilità, agganciati a grandezze economiche lontanissime (sul piano logico ma anche geografico) da quelle che influenzano lo sviluppo e il benessere delle comunità locali. Il cittadino non vota perché il suo rappresentane scommetta sui mercati, non vota per agganciare il suo Municipio al Nikkei.

Una riflessione di questo genere si impone adesso anche per le banche, prima che il fenomeno possa assumere proporzioni ancora più ampie e difficili da normalizzare. Serve fissare dei limiti alla sottoscrizione di prodotti derivati e, più in generale, dei prodotti ad alto profilo di rischio. Il quadro regolatorio qualche anno fa definito per i fondi pensione potrebbe fare da riferimento per concretizzare rapidamente il dibattito. L’alternativa è la separazione tra funzioni bancarie in senso stretto e funzioni di banca d’affari. Ma, anche in questo caso, l’area affari non potrebbe rimanere totalmente sprovvista di una regolamentazione specifica sul fronte dei derivati. Come sta emergendo che la finanza più spericolata è stata utilizzata in Italia per cementare assetti di potere antichi e poco trasparenti, una volta messa in piedi una adeguata cornice regolatoria anche le altre riforme del sistema bancario diventeranno con ogni probabilitá meno complicate e meno osteggiate. Prima fra tutte, quella delle Fondazioni.

La lezione derivata di Mps

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