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Il gruppo norvegese Thor Energy e la nippo-americana Westinghouse hanno avviato la sperimentazione dell’utilizzo del torio nella centrale di Halden, dove l’Istituto per le tecnologie energetiche (Ief) gestisce un reattore di ricerca ad acqua pesante bollente e circolazione naturale, interrato a 100 metri di profondità.

I tentativi fino ad oggi
Il torio è un metallo che si trova in natura, per lo più in depositi minerali di terre rare chiamate monazite. È tre volte più abbondante dell’uranio e può essere utilizzato come materiale “fertile” in un reattore, ovvero deve essere irradiato da isotopi dell’uranio U-233 o U-235 per innescare e mantenere una reazione a catena. Le difficoltà tecniche sono già state affrontate in reattori ad alta temperatura canadesi Candu, che sembrano tra i più adatti e flessibili per questo utilizzo, secondo l’Associazione nucleare mondiale (Wna). Sperimentazioni sono state condotte in un recente passato anche in Europa: dal 1974 al 1971 nei reattori ad alta temperatura raffreddati a gas Dragon in Gran Bretagna, sotto l’egida dell’Ocse e dell’Euratom, e dal 1967 al 1988 nel reattore modulare AVR in Germania. I tedeschi hanno anche collaborato con il Brasile nel corso degli anni Ottanta per l’impiego di miscela torio-plutonio nel reattore ad acqua pressurizzata Angra-1.

I capricci di Thor
Per l’Europa energetica nordica (di cui il dio teutonico Thor, in fondo, è quasi un nume tutelare) il torio è oggetto di visioni divergenti. In un report del 2010 il National nuclear laboratory britannico consigliava di non puntare su di esso per il nucleare, valutando immatura la sua tecnologia ed eccessivi i costi a fronte di benefici “sovrastimati”. Invece la scelta norvegese sembra andare in un’altra direzione: ad Halden si sperimenterà l’utilizzo di una miscela di ossidi torio-plutonio, ottenibili con procedimenti di metallochimica in cui la Norvegia da sempre eccelle.

Le implicazioni geopolitiche
Si può leggere nelle dinamiche delle collaborazioni e delle sperimentazioni una particolare forma della geopolitica energetica, che è uno dei principali strumenti di esercizio di influenza internazionale delle grandi potenze. L’accordo Siemens-Electrobras su Angra del 1976 è indicativo di una linea tedesca in competizione con gli Usa, tanto è vero che anche dopo il fallimento sono state le banche tedesche ad intervenire con oltre 1 miliardo di dollari per realizzare la fase 2 di Angra. Le maggiori potenzialità oggi vengono, però, dalla Cina e dall’India. La prima ha stretto nel 2009 una collaborazione con l’agenzia canadese Aecl per l’utilizzo del torio nei reattori ad acqua pesante pressurizzata della centrale di Qinshan, una delle più grandi del mondo. Un panel di esperti cinesi ha affermato che l’uso del torio è “tecnicamente pratico e fattibile” nei reattori Candu-6, promuovendone la diffusione nel Paese. Si tratta di una soluzione relativamente economica, e che si presta a un utilizzo su larga scala, nell’ottica cinese della decarbonizzazione energetica.

Il caso indiano
L’India invece si trova letteralmente seduta su una montagna di monazite (due terzi delle riserve stimate) depositata a largo delle sue coste meridionali e orientali. Essendo relativamente povero di uranio, l’Elefante asiatico punta su una particolare tecnologia, quella dei cosiddetti “reattori avanzati ad acqua pesante” che dovrebbe consentire una migliore efficienza nell’impiego del torio. In questo caso è facile ipotizzare un’opportunità economica soprattutto per i gruppi Usa, grazie all’accordo nucleare indostatunitense del 2005. Ma se le dimensioni dell’infrastruttura indiana al torio dovessero allargarsi, è probabile che ci sarà spazio per altri, in particolare per la Francia e la Russia, la quale è da sempre in buoni rapporti tecnologici con Delhi e ha, in questo ambito, una certa esperienza.

Dall'uranio al torio, la via norvegese

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