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Ieri sera il massimo rappresentante di uno dei più grandi gruppi industriali italiani, e internazionali, ci ha raccontato (tra l’altro) della sua vita: figlio di operai, ha iniziato a lavorare, mentre studiava, a 11 anni “sporco di farina”.
 
Oggi leggo sul Corriere della Sera: “Più di un giovane su tre non fa il lavoro che voleva”.
 
Il titolo semplifica, come tutti i titoli, due pagine nelle quali si analizza un rapporto del CNEL sul “capitale umano” (che espressione….).
 
In Italia, sono una eccezione i giovani che trovano un lavoro corrispondente al livello di istruzione. Il sistema delle porte girevoli tra formazione e lavoro non funziona. E’ indubbio.
 
Ma la testimonianza di ieri sera è troppo fresca per non riflettere sul fatto che dietro il successo delle generazioni che oggi hanno posti di responsabilità – e che tanto hanno contributo allo sviluppo del nostro Paese – c’era anche una concezione e uno stile di vita per il quale il lavoro più che un diritto era un impegno, per il quale il futuro andava conquistato, anche a prezzo di sacrifici, e che nulla era dovuto.
 
Mentre il sistema Paese ha il “dovere” di creare le condizioni affinché tutti possano fare il lavoro che “vogliono”, sarebbe bene, però, ogni tanto ricordare ai giovani che non esiste un “diritto” ad ottenere il lavoro che si vuole.
 
In tanti, in troppi, con la complicità dei genitori, rimangono a casa con l’alibi di non avere l’impiego dei propri sogni o che avrebbero meritato. Come insegnano le passate generazioni, talora si diventa manager a livello mondiale dopo essere stati garzoni di bottega (aml).

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