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La previsione era stata sin troppo facile. Finita la campagna elettorale Mosca avrebbe dato toni diversi ai rapporti con Damasco. La sinfonia che a febbraio aveva portato Sergej Lavrov a lodare il regime siriano ora infatti non c´è più. Il 2 marzo era stato Vladimir Putin a segnalare il primo cambio di passo del Cremlino. A successo elettorale ormai acquisito il premier russo abbandonava la distinzione tra forze governative e ribelli siriani per chiedere la fine indiscriminata delle violenze. Ma non si tratta di un voltafaccia.
 
Russia “né amica né alleata di Asad”
In precedenza il ministro degli esteri federale aveva avvertito che la Russia non è “ne amica ne alleata” di Bashar al-Asad. Solo ora però la diplomazia federale “scopre” che i problemi con il presidente siriano rendono inevitabile un cambio nelle proprie opzioni mediorientali. Prima delle elezioni le priorità erano opposte. Difendendo la Siria da una rivoluzione sponsorizzata da stati esteri il potere russo invitava il proprio elettorato a fare argine alla presunta ennesima folata arancione nello spazio ex-sovietico. Non solo però considerazioni di politica interna nelle mosse internazionali del Cremlino. Costante è stato il timore che il conflitto siriano potesse raggiungere livelli da far impallidire il ginepraio iracheno. Una preoccupazione confermata dagli ultimi avvenimenti. Gli attentanti a Damasco sono sempre più simili a quelli di Bagdad. Le pubblicazioni sullo scambio di e-mail tra la coppia presidenziale siriana hanno messo ancor più in dubbio la fibra morale del presidente siriano e le reali capacità di leadership di Asad. La resistenza sunnita guidata da Arabia Saudita e Qatar cresce a vista d’occhio. Per Riad sbarazzarsi dell’eretico regime alavita è diventata una prova di forza da vincere a ogni costo. Il conseguente aumento del flusso di profughi è registrato con preoccupazione da Giordania, Libano e sopratutto Turchia.
Come previsto da molti il conflitto siriano si sta dimostrano il più duro, problematico e lungo scontro della primavera araba. Un contesto che vede la crescente precarietà della posizione di Mosca. Un isolamento aumentato al crescere della protezione nei confronti di Asad. Da qualche giorno però la diplomazia russa è alle prese con un altro rompicapo.
 
Il petrolio a 100 dollari al barileL’intento saudita di far scendere il prezzo del petrolio. All’inizio dell’anno il ministro saudita del petrolio ha sottolineato come il suo paese potrebbe far aumentare la produzione di greggio di circa due milioni di barili al giorno. Una mossa da cui il regime wahabita spera di acchiappare due piccioni con una fava. Sostenere innanzitutto la ripresa economica Usa, un bonus da sfruttare in caso di rielezione di Barack Obama ma utilizzabile anche in caso di vittoria repubblicana. In secondo luogo, ma non meno importante, mettere alle corde Vladimir Putin finora unica ancora di salvezza per il regime siriano. Per calmare gli ardori di una magmatica e sempre più inquieta società civile Putin in campagna elettorale ha fatto scommesse impegnative che possono essere vinte solo se il costo del greggio si manterrà attorno ai 150 dollari.
 
Il gabinetto saudita alla presenza del sovrano Abdullah Bin Abdalaziz Al Saud ha invece ribadito che il prezzo dell’oro nero dovrà scendere. Iniziativa giustificata dal “bisogno di tornare a quotazioni più giuste e accelerare la ripresa economica” e il regime saudita insieme agli altri stati del Consiglio per la cooperazione del Golfo, Gcc, intende prendere i provvedimenti adatti per allo scopo. Il costo del greggio non dovrà superare i 100 dollari al barile. Questo secondo Riad il prezzo ottimale per le esigenze di produttori e consumatori.
Nulla di più indigesto per il presidente russo. Nonostante l’economia federale non stia messa poi cosi male le prospettive russe vedono qualche nuvola all’orizzonte. A parità di potere d’acquisto Mosca ha il settimo Pil mondiale. L’indebitamento dello stato non và oltre il 10 percento, mentre le riserve valutarie, pari a 500miliardi di dollari, sono le terze del pianeta. Nell’arco di dieci anni l’indice Rts della Borsa di Mosca è cresciuto del 250%. Con una media percentuale di 13,5 punti l’anno. Non è dunque un caso se il mercato federale sia ritenuto uno dei più promettenti del globo. L’altra faccia di questa medaglia sta però nel rallentamento della crescita economica. Pari 4,3% del 2011, un sogno per molti stati, questa percentuale è quasi un disonore se rapportato ai parametri Bric. Senza contare che nel 2012 l’FMI prevede una frenata dello sviluppo russo che potrebbe scendere al 3,3. Se Mosca si è sostanzialmente ripresa dalla crisi finanziaria lo deve in primo luogo agli alti prezzi del petrolio, visto che la componente energetica delle esportazioni è ancora pari al 65% delle esportazioni. La recessione mondiale ha messo in evidenza quanto la Russia sia ancora dipendente dai mercati delle materie prime.
 
Compiti colossali per il presidente russo
Al suo terzo mandato Putin si troverà di fronte a compiti colossali. Dare nuova forza all’economia federale non significa solo farla dipendere meno da gas e petrolio. Altrettanto importante sarà combattere la corruzione e creare un clima attrattivo per gli investimenti. Il paradosso di questo scenario sta nel fatto che per poter superare i propri handicap la Federazione avrà bisogno di un periodo abbastanza lungo di prezzi del petrolio alti e stabili. Per questo se per la campagna elettorale americana la crescita del costo dell’oro nero è un problema, per l’uomo vittorioso alle recenti presidenziali russe è invece una necessità.
Difficoltà dei paesi produttori e l’attesa di nuove sanzioni verso il comparto degli idrocarburi iraniani hanno fatto si che il costo del greggio raggiungesse i 128 dollari al barile. Il calo percentuale, meno due punti, di martedì va ricondotto all’aumento delle esportazioni libiche e alle prospettive di crescita delle riserve Usa. Tra fine marzo e inizio aprile, con una frequenza doppia rispetto al normale, i sauditi invieranno nel golfo del Messico 11 superpetroliere, ognuna in grado di trasportare fino a 22 milioni di greggio. A dimostrazione di quanto intenda fare sul serio, nel 2012 Riad ha aumentato la propria produzione di 600mila barili al giorno. Ignorando gli avvertimenti di Teheran, a febbraio i wahabiti hanno estratto greggio per 10 milioni di barili. Una sovrapproduzione destinata principalmente ai clienti europei e nordamericani. Ovviamente nemmeno i Saud dispongono di quantità illimitate di idrocarburi. Da qui la scelta Aramco, la compagnia petrolifera di stato, di aumentare ulteriormente le proprie potenzialità estrattive rimettendo in funzione i giacimenti “dormienti” di Dammam e Manifa. Se a questo si aggiunge che l’Iraq attivando un altro porto di carico potrebbe far passare le proprie esportazioni da 2,1 a 2,4 milioni di barili al giorno il quadro del mercato globale mondiale del petrolio si delinea meglio.
 
Poca allegria per Mosca che con il petrolio al prezzo voluto dai sauditi avrebbe difficoltà enormi di sostenibilità politica. A poche ore dall’annuncio dell’esecutivo di Riad di voler aumentare la produzione di greggio, la diplomazia russa ha fatto sapere di essere pronta a votare insieme agli altri stati del Consiglio di sicurezza una “dichiarazione presidenziale” sulla Siria. Il passo, non vincolante dal punto di vista legale, vede per la prima volta dopo mesi di blocco russo una posizione comune delle potenze Onu. Una evoluzione probabilmente inevitabile della strategia internazionale del Cremlino e senza nessun rapporto con gli annunci sauditi sul calo del prezzo del greggio. Eppure qualche dubbio resta. In visita a Berlino Lavrov si è dovuto sorbire il paternalismo del ministro degli esteri tedesco. Secondo Guido Westerwelle, Mosca sul dossier siriano rischia di trovarsi sul lato sbagliato della storia. Un rimprovero cui Lavrov ha ribattuto che nonostante il rispetto per il collega non lo ritiene in grado di “scrivere la storia”. In politica non bisogna essere naif ha sottolineato il leader di piazza Smolenskaja. Appunto.

Il prezzo del greggio, arma saudita per piegare la Russia?

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