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Uno dei grandi messaggi di questa crisi è un nuovo bisogno di politica: mai come in questi anni stiamo capendo che il mito del mercato che si auto-organizza e si auto-regola è un modello dei libri di testo, che, come tutti i modelli, si basa su molte ipotesi perché possa essere verosimile. Oggi stiamo vedendo che nella realtà il mercato ha bisogno di istituzioni, di regole, di governance per essere civile e civilizzante. C’è una forte domanda di politica dietro questa crisi ma, e qui sta il punto, la politica che conosciamo non è adeguata alle sfide che affrontiamo. Per quali ragioni? Di certo il mondo è cambiato velocemente, forse troppo velocemente, ma c’è anche un fenomeno tutto interno all’attuale classe dirigente, che può essere spiegata dalla cosiddetta “selezione avversa”, un fenomeno evidenziato analiticamente dal premio Nobel per l’Economia George Akerlof nel 1970, nell’articolo di teoria economica forse più importante dell’ultimo mezzo secolo. Questo economista americano dimostrò che in molti casi reali il mercato non premia i migliori né il merito, ma attira e seleziona i peggiori o, nelle sue parole, i “lemons” (i bidoni).
 
Il messaggio di questa teoria può essere così sintetizzato: in un mondo reale e quindi imperfetto un’istituzione (un’azienda, un ambito della vita in comune) seleziona un tipo di persone o un altro in base ai segnali o messaggi che essa emette. Le imprese che promettono alti stipendi selezionano certamente lavoratori mediamente più interessati al denaro; l’ordine religioso che cerca vocazioni non deve, ovviamente, promettere incentivi monetari ma la gratuità e gli ideali alti se vuole attrarre candidati con motivazioni intrinseche; e potremmo continuare. Pertanto una società come la nostra, che mostra una classe politica (da destra a sinistra) caratterizzata da privilegi, denaro e vantaggi sociali tende naturalmente ad attrarre candidati a fare il mestiere del politico che sono interessati, più della media, ai privilegi e vantaggi, e, conseguentemente, interessati troppo poco al bene comune.
 
Che fare allora? Un popolo, come ogni persona e comunità, per svilupparsi e crescere in civiltà ha bisogno di tanto in tanto di momenti di autentica rinascita etica e ideale. Nel Novecento questi momenti sono stati provocati da profonde “ferite” (guerre, fascismo), che però hanno avuto l’effetto indiretto di generare classi dirigenti di alta qualità morale e umana. Il miracolo economico e civile dell’Italia del Dopoguerra fu anche il frutto di politici che furono all’altezza dei loro tempi anche perché provenivano dalla parte più viva e ideale della società civile: non furono prodotti dai partiti, ma furono loro a generare i partiti che poi hanno governato la nostra società. Ma a distanza di quasi settant’anni i partiti e in generale quelle classi dirigenti (sindacati, associazioni di categoria, ecc.) si sono perfettamente istituzionalizzate, perdendo molto della loro capacità profetica e innovativa. Sono convinto che oggi per salvare la politica c’è un estremo bisogno di liberare le forze della società civile, cioè associazioni, movimenti, volontariato che pullulano nel sottobosco della nostra società, e che rendono la vita possibile e sostenibile a tanti, soprattutto ai più fragili. Ciò non significa idealizzare la bontà della società civile tout court, ma riconoscere che è sempre il civile il luogo dove crescono le cellule staminali capaci di rinnovare il tessuto sociale nei momenti di crisi.
 
Per capire le crisi che stiamo vivendo c’è bisogno di guardare in profondità, oltre i listini di Borsa e i problemi della manovra. C’è in gioco, in Italia, in Europa e in occidente, la natura del rapporto tra economia, politica e società civile. È troppo evidente, per chi sa e vuole osservare bene ciò che sta accadendo, che dietro c’è qualcosa di vecchio e obsoleto che se non cambia, o non muore, non ci consente né di capire quanto stiamo vivendo, né tantomeno poterlo governare.
Sono, dunque, convinto che non usciremo da questa crisi senza due grandi cambiamenti: un nuovo protagonismo innovativo e profetico della società civile, e una decrescita della politica (qui intesa come intermediazione burocratica) a vantaggio del civile e dell’economia, e non per provocare una ritirata dell’attuale politica per lasciar spazio all’individuo solo e/o al mercato capitalistico. Ecco perché prima di immaginare una riforma fiscale per finanziare l’attuale spesa (inasprendo controlli e sanzioni), occorre prima di tutto prevedere, se amiamo il bene comune, una seria ritirata dello spazio della politica per lasciarlo alla società civile organizzata, che, più di quanto abbia fatto finora, crei valore aggiunto e posti di lavoro e non aumenti il debito pubblico.
 
Tutto ciò significa, ad esempio, dar vita a imprese sociali e civili nei settori cruciali dell’energia (perché debbono scendere speculatori dalla Germania per gli impianti di fotovoltaico in Puglia?), dei beni comuni (per gestire acqua e suoli pubblici non c’è solo il “comune” o il “mercato for profit”, esistono anche imprese civili o cooperative dove i cittadini prendono in mano i loro beni), degli anziani (che debbono in qualche modo essere anche produttivi, e non solo spesa e problema).
Senza questa nuova centralità della società civile per una nuova politica continueremo a cercare risorse nei luoghi sbagliati, a fare leggi finanziarie tappabuchi, a creare pesi insostenibili sulle persone oneste, perché continueremo a leggere il mondo con occhiali inadatti.

La manovra migliore? Quella politica

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