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Di cosa parliamo quando parliamo di Dio? Parliamo del Dio delle Scritture o di un Dio dei diversamente credenti? Di un Dio che abbiamo compiutamente definito, cui abbiamo consegnato una sorta di minuziosa carta d’identità perchè non si disperda di fronte alle nostre polverose devozioni; oppure di un Dio indefinito e tuttavia presente nelle nostre scelte di vita? Di un Dio rivelato o di un Dio scoperto in un frammento dell’esistenza e da allora rimasto al nostro fianco; di un Dio conquistato e poi definitivamente perduto? Parliamo di un principio morale superiore oppure, ancora, parliamo di noi, delle nostre fragilità, delle nostre speranze e delle nostre paure?
 
Forse sono tutti aspetti di Dio; ognuno, secondo la sua esperienza di vita, può cercare il suo Dio e ricostruire così una propria identità spirituale. Siamo circondati da una grande irresponsabile indulgenza. La virtù non è richiesta, anzi è mal tollerata. L’etica diventa spregevole moralismo. Il vizio è esibito come prova di seduttiva normalità. “Siamo tutti peccatori” è una frase usata per richiamare con furbizia una caduta destinata a ripetersi, non una fragilità che deve essere superata. È accompagnata da un sorriso complice, non da una sobria preoccupazione. Ci sono troppi sì intorno a noi, troppa condiscendenza complice ci avvolge nell’ovatta di una sordità amorale.
 
In questo universo è sempre più difficile parlare sinceramente di Dio come presenza reale e permanente, non confinata nei momenti del rito, del rischio o del dolore. Infatti non si parla quasi mai di Dio. Si parla più spesso dei suoi simboli non raramente degradati a totem identitari; si parla dei gesti generosi o disumani che si compiono in suo nome; si parla dei suoi interpreti. Dio è troppo ingombrante; se ci misurassimo davvero con la sua esistenza ci costringerebbe a cambiare troppe cose della nostra vita.
Vedo il cortile dei gentili, in questi tempi, come risorsa della dignità umana, capace di costruire umanità e di dire finalmente i no necessari. Nel cortile possiamo parlare di tutte le presenze di Dio e possiamo anche parlarne con chi ha fatto una scelta diversa, la scelta del non-Dio, e la vive senza teatralità, con sobria consapevolezza.
 
Se c’è un cortile, c’è un muro e c’è una soglia; se non ci fossero né cortili, né muri né soglie non ci sarebbero distinzioni. Il cortile nello stesso momento accoglie e distingue. Ma quel cortile è, come a Gerusalemme, un luogo di confino dei diversamente credenti che non possono accedere al tempio? Qualcuno corre il rischio, come Paolo, di essere linciato se porta un non credente nel tempio che si apre oltre il cortile?
Oppure, nella reinterpretazione di una fondamentale esigenza dell’umanità, è il luogo in cui si incontrano tutti coloro che credono in gerarchie di valori e in sistemi di doveri?
 
Il primo cortile non mi interesserebbe. Ce ne sono troppi in giro di cortili così, con altari di ipocrisia e di esclusione. Il secondo potrebbe essere il posto in cui entrare con fiducia e serenità.
Resta fuori, questo mi interessa, il relativismo della indifferenza; del bacio dato con eguale trasporto alla Croce in chiesa e alla prostituta nel postribolo.
In quel cortile nessuno è ospite e nessuno è ospitato. Nessuno entra con i calzari, se tutti gli altri sono a piedi nudi. Siamo tutti stranieri (questo vuol dire gentili) rispetto all’altro. Oppure siamo tutti fratelli. E siamo tutti disposti ad ascoltare e a riflettere sulle parole ascoltate prima di dire la nostra parola.
So bene che alcune identità sono assai più precise, più storicamente e teologicamente determinate rispetto ad altre e da questo punto di vista non esiste uguaglianza possibile.
 
In che senso allora potremmo essere uguali nel cortile dei gentili?
Possiamo essere uguali perché crediamo nell’esistenza di valori che danno un significato alla vita e la orientano tra gli scogli del quotidiano. Possiamo dirci uguali perché sentiamo la necessità della ricerca e perché siamo consapevoli dei nostri limiti; perché ci rispettiamo e non pretendiamo evangelizzazioni. Perché conosciamo i limiti dello scambio. Nel mondo del mercato sembra che tutto possa essere comprato e venduto; persino i corpi delle donne, degli uomini e dei bambini sono tornati ad essere oggetto di pubbliche contrattazioni. Chi entra in quel cortile sa che non si salva chi non ha stabilito che cosa non si compra e non si vende. Sa che la mediazione e la composizione degli interessi può essere onesta pratica di vita; ma sa anche che esistono valori che non si mediano.
 
Bisogna avere la fede per entrare? No, perché verrebbe meno il senso stesso del dialogo e della ricerca. D’altra parte la fede è un dono che gli uomini fanno a Dio; è un atto di fiducia e proprio per questo si può avere e si può perdere e si può ancora riconquistare. Se la fede fosse un dono di Dio saremmo legittimati a stare in poltrona, in attesa dell’ora X, quando qualcuno bussando alla porta ci porterebbe, avvolta in candidi lini, la nostra porzione di fede. La fede si costruisce nella durezza dello scontro con le proprie fragilità, si rafforza con il sacrificio del contingente in vista di un valore più forte.
Il cortile dei gentili è soprattutto uno spazio mentale, aperto al metodo della conversazione e all’etica della persuasione come obiettivo non necessario ma possibile. Si entra nel cortile dei gentili perché si vuole respirare un pensiero che rende liberi, che svela la connessione dei fatti e ristabilisce le giuste gerarchie dei valori e delle convenienze. Quel cortile non sarà costruito nelle nostre città, se prima non sarà presente nelle nostre intelligenze.
 
(Tratto da Formiche, maggio 2011)

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