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La travolgente ascesa della centralità sociale delle tecnologie di rete rischia di avere effetti paradossali sulle forme di metariflessione critica circa la direzione di un cambiamento che, proprio in virtù di tale straordinario sviluppo, troppo spesso si connota aprioristicamente e puntualmente o come una nuova alba della storia o l’ennesima catastrofe…
 
Una buona via d’uscita è ricondurre il rapporto tra mente e rete nell’alveo dei più generali processi di influenza che da sempre avvengono tra assetti cognitivi socialmente significativi e l’insieme della strumentazione tecnologica deputata alla gestione e conservazione della conoscenza. È difficile negare che la rete abbia un rapporto privilegiato con la conoscenza e quindi con la mente, per almeno due ordini di ragioni: una squisitamente tecnologica e un’altra metaforica. L’architettura hardware di Internet, infatti, insieme ad alcune caratteristiche dei suoi protocolli di trasmissione dei dati, frantumano la gerarchia monodirezionale insita in molti dei media dominanti prima della sua ascesa. Tale considerazione diviene il volano per la dimensione metaforica che promuove il network a forma idealtipica di organizzazione della conoscenza. È la forma del rizoma, anticipata già nel 1980 dalla raffinata riflessione filosofica di Deleuze e Guattari (1980), ma è poi rinvenibile nella suggestione insita nel concetto di intelligenza collettiva di Lévy (1994) prima e in quello di intelligenza connettiva di De Kerckhove poi (1997).
 
Se queste letture privilegiano le potenzialità migliorative, altrove altri commentatori hanno messo in evidenza aspetti meno enfatici e trionfalistici. Tra questi Maldonado (2005) si mostra decisamente più cauto rispetto alle potenzialità positive dischiuse dalla prospettiva digitale, mettendo in dubbio la necessità di introdurre la strumentazione tecnologica sin dai primi anni della scuola. Da un punto di vista sociologico è opportuno rendere più complesso il modello di analisi del rapporto tra la rete e la mente inserendo la variabile interveniente delle caratteristiche socio-demografiche e di capitale sociale dei soggetti. In questo modo, l’apparente contraddizione sopra descritta perde di forza e viene in parte spiegata proprio in virtù del bagaglio culturale delle persone al tempo di Internet.
 
Prendiamo, ad esempio, il tema della salvaguardia della privacy. Secondo i pessimisti, la tendenziale saturazione tecnologica del tempo di vita e la sottile pervasività della rete rischia di avverare la profezia dell’uomo di vetro; gli ottimisti invece sembrano ignorare la questione o relegarla a non ben identificati meccanismi di autoregolazione che dovrebbero emergere spontaneamente dal rumore di fondo della società connessa. Più laicamente: la salvaguardia delle informazioni sensibili passa per la competenza tecnologica e informativa delle persone. E allora il vero problema, anche in questo caso, è il divario (crescente) tra chi possiede i mezzi (soprattutto culturali) per muoversi con agilità tra le potenzialità di Internet, attivando tutte le forme di protezione già esistenti e chi, invece, rischia di concedersi – (suo malgrado; ma non sempre è così) – allo sguardo penetrante dei governi e dei colossi del marketing.
 
Altro emblematico terreno di scontro tra opposte letture, il tema del rapporto tra aumento della centralità di Internet e capacità di avere memoria. Nel passaggio tra oralità e scrittura, il pensiero greco già si interroga sui pericoli e le opportunità di forme di esternalizzazione della conoscenza. La sintesi del ragionamento è affidata all’enigmatico termine pharmakon: rimedio, in grado di estendere le capacità della mente umana, ma anche potenziale veleno che pregiudica la capacità di “tenere a mente” e custodire la memoria. Legato a questo, la questione dell’impatto negativo che la frequentazione delle reti digitali avrebbe sulla nostra capacità e voglia di leggere (soprattutto per quanto riguarda le giovani generazioni). Anche in questo caso, non esiste una risposta sola, perché il peso delle variabili socio-culturali la fa da padrone. Se consideriamo il mondo della ricerca scientifica, infatti, la rete è attualmente un’infrastruttura tecno-scientifica indispensabile, capace di aumentare il confronto tra studiosi e di accorciare drasticamente i tempi di propagazione di idee e punti di vista differenti. Ma se il nostro occhio si sposta sull’utente comune – soprattutto giovane – appare evidente che l’utilizzo di Internet – spesso nella sua versione più triviale – sembra essere un’esperienza che sottrae tempo alla lettura, vincendo la competizione sul mercato dell’attenzione dei moderni, rispetto a consumi culturali percepiti come fuori dal tempo.
 
Se finora abbiamo delineato un quadro di ambivalenze e invocato un principio di precauzione verso gli eccessi di maniera, sulla questione delle identità virtuali si possono dire parole più nette. L’enfasi sulle identità doppie, molto distanti dalla vita reale, infatti, è stata la caratteristica dominante delle prime fasi di studio di Internet (Wellman 2004; Comunello 2010). Tale punto di vista intercettava, nel passato, un certo profilo dei comportamenti dei primi utilizzatori della rete, ma è stato ampiamente messo in discussione dalla recente riflessione sul tema. Meglio allora insistere sul concetto di “sperimentazione identitaria”, in cui l’utente mette in scena un legame personale e creativo tra i contesti online e offline. Ma, anche in questo caso, la vera differenza è da porre tra chi è in grado di sfruttare le potenzialità di Internet anche in termini di autoproduzione culturale dal basso e chi si muove sempre all’interno degli stessi sentieri, nutrendosi di stereotipi minimi che sono probabilmente la più grande negazione dell’originario spirito dei padri della rete. Segnale di questa inversione di rotta è il fenomeno Facebook, un social network sites che chiede ai suoi utenti (più di 20 milioni in Italia) di “metterci la faccia” ricorrendo ad un espediente al tempo stesso semplice e rivoluzionario: accorcia le distanze tra identità offline e online.

Dilemmi da net-generation

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