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Nel novembre scorso, rispondendo a sollecitazioni internazionali, l’Italia ha scelto di avviare una politica di rigore e controllo della spesa per recuperare credibilità sui mercati finanziari. Per farlo, il Paese si è affidato al governo tecnico di Mario Monti. Una scelta complessa, sotto molti aspetti, che il Paese ha fatto nella convinzione che quello del rigore fosse il primo e fondamentale passo per favorire crescita e sviluppo. Certamente una resa della politica, non senza condizioni, che tuttavia ha dimostrato l’inefficienza dei partiti di governo e opposizione. In questa forzosa, ma necessaria, sospensione della principale regola democratica (governa chi è eletto dal popolo) risiede però una straordinaria e imperdibile occasione di ripartenza. Invece di imbatterci in elezioni pasticciate, dalle quali saremmo usciti probabilmente senza un quadro chiaro e senza poter costruire un governo stabile e affidabile (vedi la Grecia di questi giorni), abbiamo preferito l’amministratore delegato protempore.
 
“Rigore” e “risanamento” sono le parole d’ordine di Mario Monti e del suo governo. A queste, fin dalle dichiarazioni nel giorno del suo insediamento, il presidente del Consiglio ne ha aggiunta una terza: “equità”. Solo una responsabile ripartizione dei sacrifici può salvaguardare una capacità di spesa diffusa: l’ossigeno per la ripresa. Ma la crisi economica e finanziaria è un virus che si è ampiamente diffuso in Europa, soprattutto in quei Paesi non propriamente responsabili che hanno permesso alla propria spesa pubblica di crescere a dismisura, in barba a ogni logica. E sono fioccati epiteti non proprio lusinghieri (Pigs, maiali, ma anche Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna), per indicare i Paesi meno virtuosi. Acronimo cui, in molti articoli stampa, si è aggiunta presto una seconda “I”: Piigs.
 
Questa crisi che pare così fumosa nelle sue origini, così inafferrabile, nelle sue ragioni profonde, in merito alla quale esperti e tecnici ogni giorno spendono fiumi di parole, contraddicendosi l’uno con l’altro, ha in realtà delle conseguenze concrete molto evidenti nella vita di un Paese e dei suoi cittadini. Le imprese che hanno chiuso in Italia nell’ultimo anno sono 11.600 (dati Cgia), e si tratta molto spesso di aziende in regola, sane, che hanno sempre pagato le tasse e i dipendenti, e che si sono trovate in difficoltà non in ragione di scelte imprenditoriali sbagliate, ma delle storture del sistema finanziario e creditizio.
 
Dal sistema imprenditoriale, la crisi arriva a toccare direttamente ogni cittadino, intaccando oggi la possibilità di molti di far fronte all’acquisto di beni fondamentali, che stanno alla base del nostro stile di vita: l’energia (energia elettrica e carburante) è certamente uno di questi.
Siamo abituati a ragionare di diritto all’energia guardando ai Paesi in via di sviluppo: discutiamo di progetti di cooperazione internazionale in grado di garantire l’accesso a forme di energia moderna in contesti rurali in Africa o in Asia, li sosteniamo con fervore nella convinzione che sia il passo imprescindibile per far sì che le popolazioni di questi Paesi possano uscire da una condizione di povertà e possano avviarsi verso un percorso di crescita che significa salute, educazione, progresso. La crisi ci costringe a un cambio di prospettiva e ci impone di rivolgere lo sguardo invece verso le nostre opulente città occidentali, dove fenomeni di fuel poverty, per ricorrere al termine anglosassone, si stanno molto rapidamente diffondendo. Sacche di “povertà energetica” allarmanti esistono in tutta Europa e hanno un impatto sempre più pesante sulla qualità della vita dei cittadini.
 
Fuel poverty significa che ci sono cittadini in Italia, ma anche in Gran Bretagna, in Francia e in Spagna, nell’impossibilità concreta di pagare le bollette energetiche, cittadini che rischiano la disconnessione dal servizio di fornitura, o che scelgono autonomamente la disconnessione dal servizio per far fronte alla necessità di razionalizzazione dei consumi; cittadini che vivono in case troppo difficili da riscaldare, malsane, piene d’infiltrazioni e di umidità. Le ricadute sulla salute sono dirette. Nel Regno Unito, secondo le stime del governo, sono 2.700 le morti che si possono direttamente imputare alla fuel poverty ogni anno. In Italia si stima che le famiglie a rischio siano il 10% del totale, mentre a livello europeo, secondo i dati dell’Epee, riferiti al 2008, il fenomeno riguarderebbe una cifra tra 50 e 120 milioni di persone.
 
Per questo, il costo dell’energia (bollette e carburante) deve essere un tema prioritario per un’efficace politica di crescita. Esiste certamente un ampio margine di miglioramento per quanto riguarda costi e prezzi dell’energia per i consumatori: in Italia, al netto delle imposte, i prezzi sono in media nettamente superiori a quelli dei nostri partner europei. A dichiararlo è lo stesso ministro Corrado Passera nel Documento economia e finanza presentato il mese scorso.
 
Un documento che, finalmente, dopo decenni di gestione approssimativa e casuale del tema energia, delinea una strategia energetica per il Paese. Lo fa in maniera chiara, valutando l’esistente e definendo gli obiettivi prioritari, ma soprattutto sottolineando che il settore Energy non è soltanto un fattore in grado di facilitare la crescita, ma è un elemento di crescita in sé e per sé. Puntare sull’efficienza, far crescere il settore delle rinnovabili in maniera virtuosa, senza gli eccessi d’incentivazione che hanno caratterizzato il passato, sfruttare in maniera più significativa le risorse di idrocarburi nazionali, passando dal 10% al 20% sulla quota dei consumi, riducendo così in maniera significativa la nostra dipendenza dai Paesi produttori.
 
L’ultimo punto strategico che si segnala nel documento è la modernizzazione del sistema di governance, un tema cui, come promotori dell’Osservatorio permanente Nimby forum, siamo particolarmente sensibili.
Ma per tornare a crescere la strategia non basta: occorre condividerla, sostenerla, promuoverla. Fare sì che diventi obiettivo comune. La crescita o è di tutti o non è.

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