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L’Italia celebra quest’anno il centocinquantesimo anniversario della sua nascita. Completata la transizione da Paese povero e arretrato di metà Ottocento, a Paese benestante, se proprio non si vuole usare il termine ricco, gli italiani possono festeggiare con orgoglio questo traguardo simbolico.
Generazione dopo generazione, i figli hanno sempre goduto di condizioni di vita migliori di quelle dei loro padri: il reddito medio è oggi 13 volte quello al tempo dell’unità. Il dato forse più eloquente, capace di sintetizzare meglio di ogni altro indicatore del benessere i progressi compiuti dal Paese, riguarda la speranza di vita alla nascita. I bambini che nasceranno nel 2011 in Italia potranno attendersi di vivere – in media – 82 anni, con un vantaggio di oltre 5 anni se a nascere sarà una femmina. Le dimensioni di un simile traguardo si possono meglio apprezzare se si ricorda che i bambini del Regno d’Italia, nel 1861, avevano una speranza di vita che non superava i 29-30 anni. I dati più recenti, diffusi nel 2010 dal Global health observatory dell’Oms, collocano l’Italia al quarto posto per aspettativa di vita, alle spalle di Giappone, Svizzera e Australia, in una lista che conta oltre 200 Paesi.
 
Il processo di diffusione del benessere non è stato uniforme, né nel tempo né sul territorio nazionale, ma lo sviluppo economico italiano ha comunque coinvolto l’intero Paese, ha raggiunto le fasce marginali della popolazione, riuscendo a coniugare la crescita economica con una maggiore equità distributiva. La straordinaria persistenza della questione meridionale, presente fin dalla nascita del Regno, segnala tuttavia la parziale se non mancata integrazione economica del Paese e rappresenta l’elemento meno soddisfacente del bilancio che si può trarre da un’analisi di lungo periodo.
La domanda che si deve porre la generazione che oggi celebra i 150 anni dall’unità, e i relativi livelli di benessere raggiunti, riguarda il futuro: l’andamento virtuoso degli indicatori macroeconomici segna infatti una battuta d’arresto da almeno due decenni. Il Paese stenta a crescere, la disuguaglianza della distribuzione dei redditi è in aumento e la povertà sta rialzando la testa. Una recente ricerca condotta con Mariacristina Rossi, economista dell’Università di Torino, offre una misura del rischio a cui è esposto il benessere attuale delle famiglie italiane. L’analisi econometrica, condotta su oltre un milione e mezzo di dati sui redditi delle famiglie raccolti dall’indagine della Banca d’Italia, mette in luce la coesistenza di due fenomeni distinti.
 
Da un lato emerge la natura cronica della povertà in Italia: le stime indicano che dal 1985 a oggi, l’80-90% dei poveri ha elevate probabilità di restare in condizione di povertà l’anno successivo. La cronicità non deve essere associata a una natura fisiologica del fenomeno; non c’è motivo per ritenere che i poveri debbano essere sempre in mezzo a noi, per credere che i poveri esisteranno sempre. La cronicità della povertà significa più semplicemente che non vi è turn-over fra i poveri: i poveri sono “i soliti noti”, hanno tipologie familiari ben conosciute da tempo.
Il secondo fenomeno riguarda l’esposizione al rischio di povertà futura delle famiglie non povere. Le stime mostrano che fra il 1985 e il 2001 la percentuale di famiglie che presentano un elevato rischio di povertà ha oscillato stabilmente fra il 35 e il 40% della popolazione. Si tratta di un esercito di 20-25 milioni di individui che pur non risultando poveri nell’anno dell’indagine presentano una elevata probabilità di sperimentare un episodio di povertà nel corso dell’anno successivo. Quando disaggregato per ripartizione geografica il dato della vulnerabilità economica mostra una forbice crescente fra il Mezzogiorno d’Italia: mentre il rischio di povertà è aumentato in maniera drammatica nelle regioni meridionali, le regioni centro-settentrionali mostrano un trend decrescente. L’Italia si sta lacerando. Nelle regioni del nord-est la fragilità finanziaria delle famiglie è in calo, più di quanto avvenga in ogni altro comparto del Paese. Anche le regioni nord-occidentali hanno saputo ridurre la vulnerabilità dei propri cittadini. A fronte di questi andamenti virtuosi si registra un vistoso peggioramento nelle regioni meridionali, con andamenti e livelli del rischio povertà che coinvolgono ormai oltre la meta della popolazione residente. Nel comparto delle isole, negli anni più recenti oltre sei persone su dieci hanno una probabilità maggiore della media di cadere in povertà, un primato negativo che richiede ulteriori analisi e approfondimenti.
 
Il benessere che gli italiani hanno acquisito nel corso della storia unitaria non può essere trasmesso per via ereditaria. Occorre consolidarlo, difenderlo e, in alcuni casi, riconquistarlo. L’analisi della vulnerabilità alla povertà delle famiglie italiane suggerisce che l’attuale sistema di tutele a protezione del benessere sia ormai ampiamente insufficiente. Possiamo dunque festeggiare, con orgoglio, il 150esimo, ma senza dimenticare che il benessere delle generazioni future dipende più di ogni altra cosa dalle scelte che è chiamata a compiere la generazione attuale.

Un futuro di benessere. Alle nostre spalle

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