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A dieci anni dal suo assassinio la memoria di Marco Biagi è un patrimonio ampiamente condiviso, tanto da essere celebrata nella solennità di Montecitorio da Gianfranco Fini, Pier Ferdinando Casini, Massimo D’Alema e Maurizio Sacconi. Anche la feccia della politica e del sindacalismo non si azzarda più a criticare l’opera di questo giurista che seppe vedere prima e più lontano di tanti altri; tanto che molte sue intuizioni sono oggi entrate a far parte dell’ordinamento giuridico mentre il suo insegnamento è ancora prolifico di idee ed iniziative, grazie soprattutto all’opera solerte della moglie, ma anche degli amici e degli allievi.
 
Da tempo, però – proprio perchè Marco è diventato un eroe di tutti – è in atto un tentativo di reinterpretare il suo pensiero come se si volesse dimostrare che il professore bolognese non si era mai sognato di patrocinare quelle soluzioni riguardanti i nodi difficili del mercato del lavoro che erano al centro delle polemiche in quel maledetto 2002 quando venne ammazzato sotto casa e che si sono trascinati fino ad oggi più o meno immutati. E’ pertanto comprensibile che la rivalutazione in senso “buonista” di Marco Biagi sia tanto più pressante oggi che è ricomparso nel dibattito lo spettro dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, suscitando, più o meno, la medesima conflittualità di dieci anni or sono, con gli stessi protagonisti di allora al solito posto.
 
Alcuni si sono persino posto l’interrogativo su come si comporterebbe Biagi, oggi, se potesse dire la sua o se gli fosse richiesto di proporre una soluzione. Ed hanno scoperto – chissà come ? – che Marco era e sarebbe tuttora contrario ad una riforma dell’articolo 18. A chi scrive non avverte l’esigenza di interpretare, a distanza di un decennio, il pensiero di un indimenticabile amico, anche perché è stato proprio lui a lasciarcelo scritto. Sosteneva già nel lontano 1998 il professor Biagi che: “Fatti salvi i divieti dei licenziamenti discriminatori ovvero per malattia o maternità, si potrebbe escludere l’applicazione della disciplina dei licenziamenti individuali, senza intaccare le tutele della forza lavoro adulta e stabilmente inserita in un contesto aziendale”. Seguiva la relativa casistica degli “esclusi”, che comprendeva i lavoratori alla prima esperienza fino a 32 anni di età; le nuove assunzioni effettuate nelle province ad alta disoccupazione; i lavoratori con meno di due anni di anzianità di servizio. E concludeva affermando che non sono le idee che mancano, ma “la capacità (il coraggio!) di abbandonare vecchi schemi e paradigmi consolidati che non corrispondono più alla realtà”.
 
Oggi il governo dei professori riuscirà probabilmente a “toccare” quell’articolo 18 che per decenni è stato al centro di un falò di vecchie identità e di stantie ideologie del secolo scorso. A quanto si sa, tuttavia, lo scambio non garantirà che la riforma del mercato del lavoro contribuisca, come potrebbe, ad assicurare una maggiore competitività alle strutture produttive e di servizio del Paese. Per quanto riguarda le modifiche della disciplina dei licenziamenti la montagna si appresta a partorire il solito topolino, mentre il governo si appresta a concedere alla Cgil un vero e proprio smantellamento di quei contratti atipici che hanno garantito al sistema delle imprese – magari in maniera squilibrata – le regole di flessibilità di cui c’era bisogno.
 
Nel documento redatto dal ministero del Lavoro è presente una impostazione culturale e politica irricevibile: i rapporti di lavoro flessibili soffrono di un diffuso pregiudizio di illegittimità, tanto da essere sottoposti a vere e proprie procedure inquisitorie che invertono l’onere della prova a carico delle imprese. Il risultato è un mercato del lavoro più rigido, proprio quando il governo pretende di liberalizzare l’economia e semplificare la vita dei cittadini e delle imprese. Così, a dieci anni dalla sua morte, Biagi viene separato dalla legge che porta il suo nome. Qualcuno ha proposto di intestare alla sua memoria anche il progetto che uscirà dal negoziato. Lasciamolo riposare in pace, senza tradire il suo pensiero. Senza che i suoi nemici lo uccidano un’altra volta.
 
*deputato del PdL

"Non uccidete Marco Biagi un'altra volta"

A dieci anni dal suo assassinio la memoria di Marco Biagi è un patrimonio ampiamente condiviso, tanto da essere celebrata nella solennità di Montecitorio da Gianfranco Fini, Pier Ferdinando Casini, Massimo D’Alema e Maurizio Sacconi. Anche la feccia della politica e del sindacalismo non si azzarda più a criticare l’opera di questo giurista che seppe vedere prima e più lontano…

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