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Trenta militari della Nato sono stati feriti il 29 maggio scorso in scontri nel nord del Kosovo, di cui 11 italiani della Kfor, durante una manifestazione di protesta a Zvecan, nel nord del Paese. La Serbia ha reagito schierando i militari. “Tutti hanno riportato ferite multiple, comprese fratture e ustioni causate da ordigni incendiari esplosivi improvvisati”, spiega un comunicato delle forze di peacekeeping internazionali. Di fatto, erano dieci anni che i militari del contingente Nato non venivano coinvolti in scontri armati. La questione non riguarda solo Zvecan ma anche le città di Zubin Potok, Leposavic e a Mitrovica Nord dove il 23 aprile si è votato per elezioni amministrative boicottate dai serbi – che chiedono maggiore autonomia – e che non riconoscono i sindaci albanesi eletti nello scrutinio a cui ha partecipato meno del 4% degli aventi diritto. Una nuova scintilla nel “cuore” dell’Europa, nei Balcani. Ne abbiamo parlato con monsignor Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita, che prima dello scoppio della guerra nella ex Jugoslavia (ai tempi dei presidenti Ibrahim Rugova e Slobodan Milošević) aveva raggiunto con la Comunità di Sant’Egidio un accordo pacifico tra serbi e albanesi, nella regione del Kosovo, per il ripristino delle scuole e delle università nell’area oggi oggetto di tensione.

Lei ha dichiarato che l’Italia ha una capacità storica di capire il mondo balcanico che pochi altri Paesi hanno. Cosa può fare il nostro Paese per smorzare i toni della crisi tra Serbia e Kosovo?

C’è anzitutto un problema di comprensione più complessiva per quel che sta accadendo in quell’area. Questa crisi non “spunta all’improvviso”, purtroppo dalla fine del conflitto che ha visto la conquista dell’indipendenza da parte del Kosovo non ci sono stati progressi verso una soluzione pacifica organica. È vero non c’è più il conflitto armato e la pace è garantita dalla presenza delle forze militari della Nato. Ma il futuro non è ancora determinato. Ed ecco perché, per un motivo o l’altro, nascono scontri più o meno violenti, più o meno caldi. La complessità balcanica – non dimentichiamo anche le questioni relative alla Bosnia – richiede molta saggezza con l’astuzia a non lasciarsi travolgere dalle provocazioni che via via si presentano e nello stesso tempo una intelligenza pronta da parte della Comunità internazionale, unione europea inclusa. C’è da dire che l’Italia deve ora giocare il suo ruolo di attore credibile e accettato dalle diverse popolazioni balcaniche. Alcuni gesti da parte del governo italiano vanno già in questa direzione.

Nonostante sia un Paese a maggioranza albanese, come sappiamo, nel Kosovo vivono circa 100mila serbi, la metà dei quali è concentrata nei quattro comuni del nord. Né Belgrado, né queste comunità riconoscono il Kosovo come un Paese indipendente. A fare da combustibile per una situazione già esplosiva è stata la recente tornata elettorale. La Serbia considera il Kosovo il cuore del suo mito nazionale. Come uscire dall’annosa disputa?

Nessuno ha la “bacchetta magica”. In quest’area geograficamente ridotta s’intersecano numerose componenti che debbono essere considerate sia nel loro complesso sia in maniera differenziata. Faccio un esempio. Un notevole peso nella questione kosovara è rappresentato dalla componente religiosa nazionale serba che vede nei santuari del Kosovo la propria origine. Si tratta di una questione che va al di là di quella squisitamente politica e quindi richiede un’attenzione particolare. Si differenzia, ovviamente, dalla questione del Nord del Paese nei comuni a maggioranza serba. Qui il tema è sensibilmente diverso e va affrontato anche con logiche diverse. Per i monasteri, ad esempio, credo sia possibile individuare qualche soluzione giuridica che possa preservare il valore della culla del cristianesimo serbo ortodosso considerando però che si trovano in un territorio che non può più essere serbo. Altro tema – come ho appena accennato – è quello relativo ai confini nord perché li risiedono in maggioranza cittadini serbi i quali questa volta hanno voluto boicottare le elezioni. In quell’area il clima è particolarmente complesso anche dal punto di vista della politica internazionale. Più volte nei mesi passati ho incontrato il generale italiano Michele Ristuccia che guida la forza Nato. C’è stata una crisi per la questione delle targhe il giorno prima del Natale e la forza di interposizione ha evitato un conflitto. Ora, dopo le elezioni, con la presa di possesso dei sindaci albanesi nei comuni a maggioranza serba, le forze Nato hanno impedito una vera e propria strage, contenendo i danni con decine di feriti. In realtà dobbiamo dire che è come se avessimo messo un coperchio sopra una situazione che continua a bollire. È facile che prima o poi un’altra questione possa suscitare altre violenze. È urgente un’azione politica molto più creativa, molto più all’erta di quanto sino ad ora è stato fatto. Ci sono piccoli segni di progresso. Ma sono troppo piccoli e troppo lenti. La soluzione va trovata certamente sul piano politico e giuridico, ma anche nel versante della sensibilità delle diverse realtà del Paese.

Qual è secondo lei il ruolo di Mosca in questa vicenda?

Non credo che i fatti avvenuti siano stati provocati o anche solo accompagnati da Mosca. È vero che c’è una analogia tra la situazione russo-ucraina e quella serbo-kosovara. Le vicende accadute alle due regioni hanno un sapore analogo. Basti pensare all’annessione della Crimea da una parte e alla separazione del Kosovo dall’altra. Siamo certamente in situazioni diversissime, ma le onde analoghe possono facilmente influenzarsi a vicenda.

Vista la sua grande esperienza nell’area quanto potrebbe incidere alimentare un proficuo dialogo interreligioso nell’area?

Credo che questa pista sia importante ed è senza dubbio utile avviarla e percorrerla. Ripeto, ci sono diverse corde in quell’area ed è importante provare a “suonarle” tutte. Direi che la questione serbo-kosovara è come una matassa complessa che può essere sciolta filo dopo filo, ciascuno con la sua logica, ma con intelligenza, con pazienza e nello stesso con una velocità che fino ad ora mio pare assente. E se nulla si muove è difficile che le scintille alla fine non appicchino il fuoco ina parte o in un’altra. Mi auguro che il filo religioso, ad esempio, possa partire e trovare una sua strada che magari scioglie il nodo religione-etnia che porta sempre con sé un tasso di difficoltà in più.

Per chiudere c’è un aneddoto che ci può raccontare riguardo la sua esperienza nell’area?

Quando dovevamo consegnare l’Università di Pristina agli albanesi e gli studenti serbi la occuparono, chiamai Milošević e lui mandò la polizia serba a cacciare gli studenti serbi. L’intervento ovviamente suscitò reazioni differenti. Ma è un piccolo esempio che il dialogo e l’accordo sono possibili e fruttuosi. È urgente un coinvolgimento più robusto dell’Europa.

 

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