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La campagna per il referendum costituzionale sulla riduzione dei parlamentari è diventata sempre più un problema imbarazzante per Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Partito come una pura formalità, il referendum si è infatti sempre più politicizzato, e il “No” è diventato il punto di coagulo di tutta l’opinione pubblica stufa del populismo antipolitico del Movimento 5 Stelle, attraendo adesioni politicamente molto trasversali da sinistra a destra.

Questo pone un grosso problema ai due leader della destra sovranista (ne pone anche a Silvio Berlusconi in verità, ma sappiamo che il Cav è abituato a farsi con naturalezza “concavo e convesso” a seconda delle circostanze). Lega e Fratelli d’Italia hanno votato sempre a favore della modifica costituzionale, e ora si sentono in qualche modo vincolati a mantenere la loro posizione nella campagna referendaria. Ma si sono anche chiaramente resi conto di come il quesito abbia nel frattempo profondamente mutato il suo significato politico. La riduzione dei parlamentari, scissa da un organico disegno di ristrutturazione degli equilibri tra i poteri, è stata innanzitutto, appunto, un cavallo di battaglia propagandistico dei pentastellati, motivata sostanzialmente soltanto come una esemplare punizione per i privilegi della “casta”. Quindi  a questo punto se prevarrà largamente il Sì i grillini cercheranno di intestarsi la vittoria per puntellare se stessi ed il pericolante esecutivo giallorosso, anche di fronte ad un esito probabilmente non entusiasmante per loro delle elezioni amministrative. Se invece il No dovesse avere un risultato rilevante – o addirittura, come in realtà pochi prevedono, vincere – il risultato sarebbe letto come una sconfitta di M5S e un colpo al governo Conte bis.

Alla luce di ciò, Salvini e Meloni stanno tentando di giocare, con cautela, due parti in commedia. Mantengono il Sì come posizione ufficiale dei loro partiti, ma (come Forza Italia) tendono a giustificare le ragioni del No, non scoraggiando affatto i loro dirigenti, militanti ed elettori dal fare propaganda in tal senso, ma anzi lasciando intendere che una bocciatura della riforma in fondo non dispiacerebbe nemmeno a loro. In tal modo,  i due leader puntano a non lasciare ai soli pentastellati la ancora probabile vittoria, e al tempo stesso a indicare ogni risultato del No superiore alle perevisioni come un avviso di sfratto all’esecutivo.

E’ una tattica probabilmente obbligata dalle circostanze, ma anche rischiosa, perché potrebbe sortire il risultato opposto: in entrambe le eventualità, Lega e FdI potrebbero non trarre alcun profitto dall’esito della consultazione. In particolare, poi, se davvero il No alla fine conseguisse una minoranza consistente dei voti, Salvini e Meloni potrebbero mangiarsi letteralmente le mani pensando che un loro impegno univoco in tal senso avrebbe forse potuto far inclinare la bilancia a favore di quest’ultimo, con esiti dirompenti sugli attuali equilibri politici a netto sfavore della coalizione giallorossa.

Ma la difficoltà della destra sovranista al riguardo non è soltanto tattica, bensì principalmente politica e culturale. L’impasse attuale sul referendum riporta infatti quelle forze al loro “peccato originale”: quello di aver assecondato troppo, negli anni passati, certa retorica antipolitica, giustizialista, statalista di cui i grillini sono stati i più rozzi – ma elettoralmente efficaci – alfieri, non riuscendo a contrapporre ad essa un modello alternativo di conservatorismo nazionale fondato su identità, libertà, limiti dei poteri, fiducia nelle forze costruttive della società.

Questa subordinazione culturale nel caso dei leghisti ha condotto, come sappiamo, fino alla scelta della coalizione con il M5S nel governo Conte 1, che certo ha consentito a Salvini di “vampirizzare” elettoralmente l’alleato, ma alla lunga non ha prodotto risultati concreti, visto che la forzatura “del Papeete” è andata malissimo e al potere ci sono rimasti i grillini, confluendo di nuovo in quella sinistra da cui cultueralmente erano in gran parte sorti.

In ogni caso, per tutta la destra questa consultazione referendaria dovrebbe essere l’occasione per riflettere sul fatto che inseguire la furia pentastellata anti-casta non rende, e che se essa vuole presentarsi come una solida coalizione di governo occorre puntare su ben altre parole d’ordine, e guardare molto più in alto.

La commedia del referendum e le due parti di Meloni e Salvini. Scrive Capozzi

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