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Con l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea, oggi la potenza industriale più importante è diventata la Francia. Ha investito bene anche nel comparto della difesa, ha tutte le piattaforme, ed è l’unica in grado di realizzare aerei e navi da combattimento. Gli altri produttori, Italia compresa, sono costretti a vendere “parti del tutto”, in questo modo esportando valore aggiunto a vantaggio di chi assembla. La Francia ha un peso maggiore, infatti, in epoca post-Brexit, è l’unico Paese europeo ad avere il diritto di veto alle Nazioni Unite e ad avere una presenza nel nucleare. Oggi partiamo da una posizione più delicata, perché non c’è dubbio che l’industria europea sia concentrata per la maggior parte in Francia.

L’Italia ha dei settori di eccellenza che possono in qualche modo competere o essere un perno di un’alleanza europea più grande. Avere una politica della difesa comune sarà più facile se l’industria del settore preparerà la strada per tale cooperazione, agendo come forza motrice per spingere i decisori, cioè la politica. In caso contrario, continueremo ad andare ognuno per conto proprio, come spesso succede in Italia, ritagliandoci il nostro “pezzetto”, senza una visione d’insieme. C’è un’altra questione. Bisogna prendere atto che non è possibile realizzare un prodotto che vada bene a tutta l’Europa: è possibile formare una piattaforma comune, ma necessariamente ci saranno poi delle personalizzazioni. Noi, come Italia, operiamo nel Mediterraneo, la Germania soprattutto nel Mar del Nord e la Francia nell’Atlantico. Ognuno cercherà ovviamente di adattare il prodotto, come è successo con le fregate Fremm, frutto di un programma comune significativo, in cui le navi però, alla fine, devono essere adattate agli scenari in cui le singole nazioni operano. Con le Fremm, lavorando insieme con la nostra Marina, siamo stati in grado di realizzare un prodotto che oggi, sul mercato internazionale, è vincente e che può essere considerato un esempio virtuoso da seguire. Sempre analizzando il comparto della difesa, forse sarebbe utile che tutti ci facessimo un esame di coscienza su come sono state spese le modeste risorse che il Paese negli scorsi anni poteva destinare alle industrie del settore.

Abbiamo fornito i prodotti più consoni alle necessità delle nostre Forze armate, o sono andate disperse risorse per prodotti non sempre pronti all’impiego? Volendo esemplificare, su 100 di essi forse solo una ventina sono risultati validi e pronti all’uso. Sono temi sui quali, quindi, è opportuno fare autocritica. Insomma, l’industria deve chiedere al governo e alle Forze armate di essere indirizzata per realizzare in Italia prodotti che abbiano la possibilità di essere esportati con successo. Dopo l’esame di coscienza, sarà necessario decidere su quali capacità convogliare le ricerche. Sarebbe utile seguire l’esempio americano, puntando, laddove possibile, su programmi joint, cioè interforze, offrendo da subito, non solo il prodotto, ma anche l’assistenza post-vendita. In questo modo le Forze armate disporranno di un prodotto valido per molti anni. Comunque, credo che la questione più pressante di tutte sia quella del consolidamento dell’industria europea, oggi più che mai di vitale importanza. Quel che ci è rimasto dobbiamo cercare di metterlo insieme, dopodiché “vinca il più bravo”.

Sarà necessario fare alleanze: in alcune saremo in maggioranza, in altre in parità, ma ne va del futuro del Paese, altrimenti saremo costretti a pagare lo stesso scotto dei tedeschi che, di fatto, non hanno già più un’industria della difesa vera e propria, ad eccezione di poche realtà. Oggi la nostra industria ha un orizzonte molto ampio, e per questo è chiamata a prendere degli impegni di lungo periodo, fino a 30 anni. In questo scenario, i programmi più importanti al mondo sono quelli navali. È fondamentale però che l’industria abbia il supporto degli Stati, che hanno vita più longeva dei governi, poiché da sola non potrebbe farcela. Infine, affinché l’Italia possa continuare a giocare un ruolo di primo piano in questo processo, a mio avviso sarebbe auspicabile una semplificazione, non una banalizzazione, dei vincoli della nostra legge che regola le autorizzazioni all’export, la ben nota 185 del 1990, per non trovarci, tanto per fare un esempio, a considerare l’Australia alla stregua del Ghana.

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