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“Ma a un giovane che non sa chi sia Martelli, gli devi dire se vanno avanti i figli di papà o chi ha merito”. Intervistato da “Repubblica”, Matteo Renzi è tornato su quello che – almeno dal convegno della Leopolda del 2011- è il concetto chiave della sua cultura sociale. Lasciamo stare lo slogan coniato da Claudio Martelli nella conferenza programmatica del Psi (“Un’alleanza riformista tra il merito e il bisogno”, Torino, 1982), a cui pure in qualche misura si richiamano le parole del segretario del Pd. La verità è che da almeno un decennio il merito è tra i valori più invocati nel dibattito pubblico domestico.

Ma cos’è il merito, allora? Due sono i significati principali che la tradizione teorica di matrice weberiana ci consegna. Il primo si riferisce alle qualificazioni formali, ovvero ai titoli di studio,  come attestato delle capacità individuali e dell’impegno speso per acquisire determinate competenze. Il secondo rimanda direttamente all’intelligenza (misurata in base al famoso Quoziente) e allo sforzo profuso nello studio e nel lavoro.

La questione è quindi risolta? Niente affatto. Perché resta aperto il piccolo problema di come il merito viene valutato da chi detiene l’autorità per l’accesso alle professioni, o da chi ha il potere di premere il pulsante dell’ascensore sociale. In questo senso, il mondo delle raccomandazioni rappresenta il lato sommerso o, se si preferisce, il lato oscuro della meritocrazia. D’altronde, quest’ultimo – come raccontano le cronache giudiziarie – è in grado di inquinare le stesse procedure formali di reclutamento negli apparati amministrativi.

Ancora. Non basta prendersela con una scuola che non premia il talento di professori e studenti, o con la piovra del nepotismo e del clientelismo che sostituisce i più bravi con i più furbi. Infatti, in tante imprese italiane la meritocrazia è usata non come un mezzo per valorizzare il “saper fare” dei lavoratori, ma per garantirsi la loro obbedienza e la loro fedeltà all’azienda. Questi erano gli “assegni di merito” alla Fiat novecentesca. Essi sopravvivono anche oggi sebbene con nomi diversi, magari per penalizzare duramente scioperi e assenze per malattia.

Infine. Il dibattito sulla meritocrazia è tuttora troppo timido sul rapporto tra merito e ricompense. Ammesso e non concesso che le classi dirigenti siano state selezionate sulla scorta di criteri meritocratici, come si può giustificare l’attuale – enorme – forbice tra i redditi di “chi comanda” e di “chi esegue”? Forse un moderno sistema formativo e un nuovo modello contrattuale dovrebbero servire anche a promuovere le capacità e le competenze delle persone che lavorano, più che a dispensare credenziali di affidabilità passivamente subordinate alle convenienze congiunturali del mondo imprenditoriale.

Il "merito" di Matteo Renzi

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npl

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