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Nel grande processo di omologazione che ormai come una peste si diffonde per il globo, sfugge ai molti, distratti dal roboante turbinare degli eventi numerari che ormai incarnano il discorso economico, ciò che ad essi sottostà. Il loro costituente ontologico, si potrebbe dire.

Pletore infinite di uditori distratti apprendono, in virtù di un’osmosi perniciosa con l’ambiente che li circonda, decine di indicatori di cui ignorano sostanzialmente il significato, contentandosi di registrarne i saliscendi, come se ciò bastasse a dar senso a una qualunque forma d’umore o di ragionamento. Col risultato che in tempi di indici decrescenti, si diffonde, implacabile, la depressione.

Ma quello che dovremmo chiederci tutti è molto semplice: siamo davvero attrezzati per decodificare la minacciosa invasione di numeri che proviene dalle statistiche economiche e finanziarie, o ce ne facciamo semplicemente travolgere?

Questa domanda la faccio innanzitutto a me stesso, forte della consapevolezza di ignorare tante cose e di doverle, di conseguenza, apprendere.

Prendiamo la contabilità nazionale raccolta dall’Istat. Lì dentro c’è scritto tutto quello che succede nell’economia italiana. Chiunque si interessi di economia l’avrà di sicuro almeno sfogliata, finendo col perdersi nel labirinto delle definizioni, spesso ignorate, e contentandosi perciò di raggranellare qua e là qualche numero per tessere il solito ragionamento a tesi, forte del principio secondo il quale una statistica, se la torturi abbastanza, finirà col dirti qualunque cosa. Nella contabilità nazionale ci sono una decina di definizioni diverse per i redditi, ad esempio, e solo un’attenta lettura delle definizioni permetterebbe di scegliere quella adatta a rappresentare qualcosa.

E qui veniamo al punto: le definizioni.

Mentre tutti sanno che la contabilità nazionale è un sistema di conti che misura diversi aggregati monetari, pochi si soffermano a considerare che tali aggregati sono definiti da precise convenzioni. Considerare le quantità senza comprendere tali definizioni equivale a parlare una lingua straniera di cui si ignora il significato delle parole, fidandosi delle assonanze con la propria lingua. Per dire: l’idea di reddito o di produzione che abbiamo nella nostra testa può essere assolutamente diversa da quella contemplata dalla contabilità nazionale.

Dopodiché, prima di avventurarsi in qualunque disamina, bisognerebbe farsi un’altra domanda (almeno io me la sono fatta e qui ve ne do conto): ma queste regole, chi le ha decise?

In un’epoca maledettamente economicizzata come la nostra, dove tutto ruota attorno alle percentuali, questa domanda ha un evidente nesso col senso politico di tutto. Basti ricordare, come esempio, la celeberrima regola del deficit/pil al 3% che inquadra e decide la nostra vita. Chi ha definito il deficit e il Pil ha, di fatto, determinato la regola nel suo significato politico, e quindi reale, assai più che il limite del 3% in sé.

Mi sono risposto scovando una nota che l’Istat ha diffuso lo scorso 28 gennaio. L’Istat ci informa che a partire da settembre prossimo verrà aggiornata la contabilità nazionale secondo gli standard Sec 2010 che aggiornano i vecchi standard Sec 95, in omaggio al regolamento Ue 549/2013, frutto della silente e laboriosa opera dell’Eurostat e delle varie burocrazie statistiche nazionali.

Il nuovo Sec “fissa in maniera sistematica e dettagliata il modo in cui si misurano le grandezze che descrivono il funzionamento di una economia, in accordo con le linee guida internazionali stabilite nel Sistema dei conti nazionali 2008″. Con l’adozione della nuova classificazione “ in tutti i paesi dell’Ue si procede a una revisione straordinaria dei conti nazionali. In tale occasione, in Italia come in molti altri paesi, vengono anche introdotte modifiche dovute all’aggiornamento e al miglioramento delle fonti informative e delle metodologie di stima”.

Vale la pena ricordare che il Sec, che sta per sistema europeo dei conti, la cui prima versione risale al 1970, riprende in forma comunitaria il sistema dei conti nazionali fissato dalle Nazioni Unite, fino a quel momento utilizzato dagli stati per dare ordine alla propria contabilità. Nel tempo nell’Unione europea ci sono stati vari aggiornamenti, sempre per dar conto dei progressi nella rilevazioni degli aggregati monetari, fino all’attuale revisione che entrerà in esercizio in autunno. Ma quel che vale rilevare è che la forma della contabilità nazionale è stata di fatto adattata a un sistema contabile deciso a livello di organismo sovranazionale addirittura mondiale.

Il Sec, di conseguenza, è stato periodicamente rivisto “in maniera tale da assicurare la comparabilità dei dati dell’Unione con quelli elaborati dai suoi principali partner internazionali”, come leggo nella premessa del Parlamento europeo propedeutica all’approvazione del nuovo regolamento pubblicata il 13 marzo scorso.

Ed eccola qui l’esigenza: avere aggregati monetari comparabili, senza i quali mancherebbe la base di un qualunque discorso comune. In questo modo la statistica, fonte di ogni omologazione, diventa il lievito dell’economia e di ogni politica economica, incoraggiandone le ovvie derive tecnocratiche in virtù delle quali regole di bilancio, elaborate sulla base di definizioni statistiche decise in silenzio da organismi sovranazionali, determinano il futuro dei popoli.

Questo è quello che si dovrebbe sapere, tanto per cominciare, della contabilità nazionale.

Il resto lo vedremo poco alla volta.

Quel che si dovrebbe sapere della contabilità nazionale

Nel grande processo di omologazione che ormai come una peste si diffonde per il globo, sfugge ai molti, distratti dal roboante turbinare degli eventi numerari che ormai incarnano il discorso economico, ciò che ad essi sottostà. Il loro costituente ontologico, si potrebbe dire. Pletore infinite di uditori distratti apprendono, in virtù di un’osmosi perniciosa con l’ambiente che li circonda, decine…

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