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Acqua, realtà e pregiudizi

La riforma dei servizi pubblici locali rappresenta un traguardo atteso da oltre un decennio dal sistema Italia. Un obiettivo perseguito da governi di colore diverso attraverso tre tentativi di riforma messi in cantiere e poi bloccati o resi inefficaci dalle resistenze politiche o dal potere di veto degli enti locali. La necessità di introdurre elementi di mercato nel monopolio locale dei servizi pubblici e separare la funzione di indirizzo politico, in capo all’ente locale, dalla gestione imprenditoriale del servizio stesso, è sempre stata sentita da larga parte delle forze politiche e sociali. Quante volte abbiamo ascoltato leader politici, rappresentanti delle massime istituzioni bancarie, imprenditori, sindacalisti, professori e giornalisti perorare la causa di questa riforma come condizione fondamentale per lo sviluppo del nostro Paese? Senza dimenticare che un’analisi del Censis ha affermato che questa riforma corrisponde agli umori della società civile e che la liberalizzazione dei servizi era contenuta nel programma di governo presentato agli elettori. Eppure, da quando nel novembre scorso le Camere hanno approvato in via definitiva la riforma del settore, è partita una fortissima offensiva politica e mediatica che è andata ad appuntarsi in particolare sulla liberalizzazione della gestione del servizio idrico. In questi sei mesi abbiamo ascoltato critiche, slogan
e messaggi fuorvianti, tutti imbracciati nel nome della facile ricerca dell’allarmismo o del consenso. I
Il tam tam è partito impetuoso: “Il governo privatizza l’acqua”. Una cortina fumogena che ha puntato a veicolare e a fissare nell’immaginario una informazione evidentemente falsa visto che il testo ribadisce in maniera chiara che l’acqua è per legge un bene pubblico e tale resterà anche con le nuove norme. Il dibattito, dunque, si è sviluppato lungo binari paralleli alla realtà. Una certa parte della sinistra, evidentemente alla ricerca di argomenti o di battaglie identitarie, ha deciso di inventarsi una presunta privatizzazione dell’acqua e di cavalcarla. E, come noto, una bugia ripetuta tante volte finisce per diventare una mezza verità. Il risultato è che oggi siamo di fronte ad uno spettacolo bizzarro di opposizione fortissima a qualcosa che non esiste e che viene addirittura combattuto a colpi di referendum. Basterebbe poco, in realtà, per smentire queste tesi. Basterebbe che la legge venisse letta senza gli occhiali della demagogia e del pregiudizio. Proviamo allora a guardare ai fatti. I servizi pubblici locali – acqua, trasporti di massa, rifiuti urbani – incidono nella vita quotidiana di tutti noi e detengono un ruolo fondamentale nell’economia del Paese. Il settore comprende oltre un migliaio di imprese, circa 250mila dipendenti e movimenta un giro d’affari di oltre 43 miliardi di euro. Complessivamente contribuisce per oltre l’1% al Pil nazionale ma in alcune regioni rappresenta il 6% del valore aggiunto prodotto in loco. La legge Ronchi detta una serie di norme che si sono rese necessarie per interrompere il susseguirsi di procedure di infrazione ai danni dell’Italia, procedure avviate a causa di modalità di assegnazione del servizio giudicate anomale o poco trasparenti dalla Commissione europea. La legge non contempla alcuna privatizzazione obbligata ma introduce l’obbligo di indire gare d’appalto per tutti i servizi pubblici locali, compresi quelli relativi al sistema idrico, che ora sono gestiti dai Comuni attraverso affidamenti senza gara a società a capitale interamente dell’ente pubblico locale (affidamento in house) o con gara a società i cui componenti sono talvolta privi dei necessari requisiti tecnico professionali per garantire un servizio adeguato.
Questa pratica decisamente anomala non sarà più possibile e l’affidamento dovrà essere sottoposto a gara entro il 31 dicembre 2010. Poiché molti contratti sono già in essere è stato stabilito che sarà possibile confermare l’incarico a chi lo sta già gestendo purché ceda una quota ai privati pari almeno al 40%. In pratica la legge non fa altro che affermare l’intangibilità dell’acqua come bene pubblico, cercando di introdurre una gestione industriale dei servizi idrici dove finora hanno trionfato gli affidamenti poco trasparenti, le lotte di potere, le inefficienze e gli sprechi. D’altra parte se si assegna un monopolio eterno ad una società pubblica, difficilmente si assisterà agli investimenti necessari: più facilmente quello che si verificherà saranno sprechi e assunzioni facili.
Basti pensare che oggi il dato medio della dispersione idrica è del 30%, per un valore di 2,5 miliardi di euro l’anno mentre in Germania le perdite non superano il 7%. C’è un punto, poi, che tengo particolarmente a sottolineare: non c’è alcuna estromissione degli operatori pubblici dal settore. Le società pubbliche potranno tranquillamente partecipare alle gare e vincerle se dimostreranno di avere i giusti requisiti e di poter offrire il miglior servizio al cittadino. Peraltro l’esperienza italiana dimostra che non esistel’assoluto primato del pubblico o del privato a livello di capacità di gestione. Bisogna, però, rilevare che oggi la presenza del pubblico è assolutamente preponderante e ciononostante dal 1998 al 2008 le tariffe sono cresciute del 47%. Aumenti giustificati da investimenti che si sono realizzati soltanto per il 49% delle cifre promesse. Per questo non è opportuno condurre il dibattito a colpi di dogmi così come non lo è citare a sproposito le esperienze di altri Paesi. Si è molto parlato in queste settimane della ripubblicizzazione dell’acqua avvenuta a Parigi. Peccato, però, che ben pochi abbiano letto un recente articolo di Le Monde intitolato “Distribuzione dell’acqua: si risveglia la concorrenza, i prezzi si abbassano”. Secondo il quotidiano, in Francia, nell’ultimo anno, si è verificata una diminuzione media tra il 5 e il 9% delle tariffe e questo perché, cito testualmente, «il settore, che ha per molto tempo funzionato come un oligopolio, si è aperto alla concorrenza». In questo senso anche la presentazione dei referendum abrogativi, per quanto legittima, è figlia di quella mistificazione comunicativa che non fa onore ai presentatari. Permettetemi di ribadirlo: l’acqua, bene demaniale, è e resta un bene pubblico. Si tratta di un principio sancito dalla legge Galli del 1994 e ribadito nero su bianco anche dalla nuova normativa che all’art.15 parla di “piena ed esclusiva proprietà pubblica delle risorse idriche il cui governo spetta esclusivamente alle istituzioni pubbliche”. Resta da chiedersi perché la sinistra – con eccezioni importanti come quelle di Franco Bassanini e Franco Debenedetti – abbia sposato una protesta che ha come unico obiettivo quello di assicurare la sopravvivenza di società che spesso assomigliano a stipendifici o a vere e proprie cittadelle del potere. Sarebbe ora di finirla con la difesa a oltranza di pratiche medievali e di privilegi così evidenti. Tanto più che la sinistra finisce per smentire se stessa, visto che il disegno di legge della diessina Adriana Vigneri, che avrebbe liberalizzato i servizi pubblici locali, approvato a larga maggioranza al Senato arrivò vicino al traguardo anche alla Camera nel 2001, ma lo mancò di un soffio decadendo per fine legislatura. E che il ddl voluto da Linda Lanzillotta, e firmato anche da Antonio DiPietro, ebbe una traiettoria parlamentare simile.
Io credo che tutti dovremmo ritrovarci su un principio: che il gestore – misto, pubblico o privato – sia qualificato, efficiente, controllato dai competenti organismi e trasparente nella gestione. Il resto sono slogan che non ci aiutano ad uscire dal fortino della conservazione. Ora, però, bisogna compiere l’ultimo passo individuando standard minimi di qualità, vigilando sulle tariffe e garantendo il corretto funzionamento delle gare sul territorio. In questo senso sarebbe quanto mai opportuna un’Autorità di controllo a livello nazionale con poteri reali. Un atto dovuto nei confronti del cittadino che deve essere tutelato e garantito rispetto a possibili comportamenti speculativi.
 

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