Molti studiosi e lettori comuni ritengono che il giudizio definitivo su Antonio Gramsci sia stato scritto da Benedetto Croce, il quale indicò nel pensatore sardo un esempio altissimo di tolleranza, di rispetto, di gentilezza, di equanimità e di apertura alle idee e alle ragioni di tutti. Queste parole − scritte nel 1947, quando di Gramsci si conoscevano soltanto le Lettere dal carcere – si sono imposte con una tale forza da essere divenute indiscutibili. Eppure, la documentazione esistente dimostra che Gramsci fu un importante teorico della pedagogia dell’intolleranza. Testualmente, chiamava gli avversari politici “porci”, “pulitori di cessi”, “stracci mestruati”.
Si presti attenzione a queste parole di Gramsci, che non erano rivolte ai fascisti, bensì ai moderati: “Per noi chiamare uno porco se è un porco, non è volgarità, è proprietà di linguaggio. Noi insomma badiamo all’interiorità, non all’apparenza verbale, e la sostanza cerchiamo qualificare con esattezza e proprietà anche se per ciò dobbiamo adoperare parolacce ed espressioni ritenute volgari”. Fino a quando fu libero di esprimersi e di lottare, Gramsci scriveva che, a rivoluzione avvenuta, i comunisti avrebbero dovuto armarsi e uccidere gli avversari per eliminare ogni forma di opposizione al comunismo. Il disprezzo, l’insulto, l’intolleranza, la ridicolizzazione dei difetti fisici degli avversari, l’elogio della violenza e della parolaccia, le minacce, la denigrazione erano considerati da Gramsci strumenti pedagogici in vista della trasformazione rivoluzionaria del mondo.
La pedagogia dell’intolleranza di Gramsci ebbe il suo più tenace oppositore in Filippo Turati.
Da uno studio attento del materiale proveniente dalle fonti congressuali, si ricava che i principi che sono oggi alla base della cultura politica dei riformisti erano già stati sviscerati e difesi da Turati tra il 1898 e il 1921: rispetto per gli avversari, pluralismo politico, condanna dell’insulto, elogio del dissenso, pedagogia dell’ascolto, educazione al dialogo, difesa del diritto all’errore, amore dell’eresia, rifiuto della violenza.
L’elogio del dubbio e il diritto all’eresia formulati da Turati si basavano sulla constatazione che le idee e i punti di vista variavano con il mutare delle condizioni storiche e delle appartenenze sociali. Ciò che oggi appare assolutamente giusto – diceva Turati – potrebbe non esserlo domani. Ecco perché è della massima importanza tutelare gli eretici in seno al partito socialista. Gli eretici non vanno espulsi, bensì protetti. Questa concezione laica dell’ideologia impediva a Turati di credere nell’esistenza di verità ultime e definitive.
A differenza di Turati, Gramsci dichiarava che l’invito a calarsi nel punto di vista degli avversari gli faceva talmente “schifo” da farlo “svenire”. Mentre Turati difendeva con la massima determinazione il diritto all’eresia, Gramsci invitava a non avere nessuna tolleranza per coloro che avevano idee “sbagliate”.
Fino a quando fu libero di esprimersi, Gramsci difese una cultura politica che negava agli avversari politici il diritto di esprimersi e di esistere.
È stato obiettato che la violenza verbale di Gramsci si spiegherebbe facilmente con il contesto storico “incandescente” in cui prese corpo. Eppure, Gramsci e Turati vissero nello stesso contesto, ma ebbero modi di pensare, di sentire e di agire opposti perché gli uomini non reagiscono in maniera meccanica agli stimoli dell’ambiente esterno. Gli uomini scelgono e definiscono la realtà in base alle loro culture politiche, intese come una serie di meccanismi di controllo – progetti, prescrizioni, regole, istruzioni – per orientare il comportamento.
Gramsci e Turati si confrontarono con gli stessi avvenimenti. Eppure, Turati non chiamò mai gli avversari politici “stracci mestruati” perché la sua cultura politica glielo impediva, né gli venne mai in mente di dire che li avrebbe uccisi dopo avere conquistato il potere. Gramsci e Turati lottarono per affermare due modelli pedagogici opposti perché differenti erano i valori in cui credevano. Gramsci disprezzava Turati perché giudicava un abominio la sua pedagogia della tolleranza basata sul rispetto degli avversari e sul rifiuto della violenza. Per Gramsci, Turati era un “semifascista”, un orribile traditore. In una lettera a Togliatti, affermò di voler distruggere tutto ciò che la cultura politica di Turati rappresentava.
Quando Turati morì nel suo esilio antifascista in condizioni di povertà, Palmiro Togliatti gli dedicò un epitaffio in cui lo definì uno degli uomini più spregevoli, corrotti, ignoranti, vigliacchi e disonesti della sinistra italiana. Queste parole di Togliatti − pubblicate nell’aprile del 1932 sulla rivista teorica del Pci Lo Stato Operaio − si sono tramandate per molte generazioni, screditando la figura di Turati in Italia e all’estero. Eppure, dobbiamo a Turati uno dei lasciti pedagogici più alti e più nobili della storia della sinistra italiana. È ciò che, nel mio libro Gramsci e Turati. Le due sinistre, ho proposto di chiamare “il diritto all’eresia”.
Nelle parole di Turati: “Noi non siamo una chiesa, né questo è un concilio ecumenico. Eretici e ribelli, conosciamo bene il valore delle eresie, il loro possibile domani, e dobbiamo ammetterle in franchigia anche dentro il Partito” perché essere socialisti – affermava Turati – significa battersi con tutte le forze affinché gli avversari politici, dentro e fuori il partito, abbiano il diritto di esistere e di esprimersi liberamente. Il socialismo non può esistere senza la libertà.
È ancora Turati che parla durante il congresso socialista di Reggio Emilia che vide l’ascesa di Mussolini: “La forza e la nobiltà del Partito socialista consiste nel combattere lo spirito di dogmatismo e di asservimento delle coscienze, che comprime e sopprime l’energia del pensiero e la dignità dell’uomo, riconoscendo nel più ampio diritto di critica e della stessa eresia […] la migliore garanzia della propria pertinace vitalità e del proprio incessante rinnovamento nella storia”.
Gramsci e Turati hanno rappresentato due modi di essere di sinistra in irriducibile contrasto.