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Agenda Monti: pregi, pecche e numeri immaginari

In principio era il Tecnico. Poi, nella pienezza dei tempi, il Tecnico si fece Agenda, e divenne scaricabile dal web.

Evocata per un anno allo scopo di salvare l’Italia, ma finora tramandata solo per tradizione orale, l’Agenda Monti finalmente esiste in forma scritta, o meglio in formato Pdf. È quindi possibile cominciare a confrontarsi sui suoi contenuti, guardando a tre punti chiave: a quale domanda politica si rivolge, quale offerta di policies propone e con quale struttura organizzativa intende ottenere il consenso elettorale.

La domanda politica indirizzata nell’Agenda Monti è, come nella tradizione democristiana e popolare, trasversale ai gruppi sociali, e addirittura transnazionale, come ben chiarito dalla premessa sui riferimenti all’Europa. Ma è priva di un preciso radicamento sociale: chi dovrebbero essere gli attivisti montiani, gli elettori mobilitati, coloro che si sentono rappresentati nei propri interessi? Non certo il mondo delle imprese e del lavoro, specie quello delle Pmi, che trova sull’Agenda Monti l’ennesima promessa di riduzione del cuneo fiscale ma che sta pagando ancora una volta di tasca propria gli inasprimenti di tasse sul settore privato nonché gli irrigidimenti e le arbitrarietá delle norme sul lavoro a causa di una riforma contraddittoria e ideologizzata, senza vedere alcun significativo intervento analogo sul settore pubblico. Specie per i lavoratori autonomi e i professionisti, il bilancio del governo tecnico è una bruciante percezione di riduzione relativa dei redditi da lavoro privato rispetto ai tanti burocrati garantiti dallo Stato.

Il grande sottobosco elettorale che vive di spesa pubblica e trasferimenti statali ha infatti già un riferimento chiaro nel Pd di Bersani e Fassina, e certo non può affidarsi ciecamente a Monti, che, almeno a parole, intende fare un po’ di spending review.

Rimane il mondo cattolico, ancora vasto ma diviso nei propri interessi tra chi è già organicamente federato al Pd e chi non ha ancora reciso i legami con il Pdl. Sarebbe una vera operazione-nostalgia, di dubbia efficacia, ascoltare nel 2013 sermoni pro Monti dai pulpiti delle parrocchie. La diaspora politica del cattolicesimo italiano non appare più ricomponibile: certo non tramite accordi con una sinistra sempre meno pavida sui temi etici.

Il gap tra vocazione teorica alla rappresentanza universale e la prassi di implicita tutela di specifici interessi – la spesa pubblica, le banche, il regime dei sussidi e del parastato, la burocrazia ministeriale ed europea – ripropone, vent’anni dopo, le contraddizioni che portarono alla scomparsa della vecchia Dc. E Mario Monti sa bene di non poter ripercorrere le tortuose e inconcludenti strade dell’onesto Mino Martinazzoli.

Il punto forte dell’Agenda Monti dovrebbe quindi essere quello dell’offerta programmatica. I meriti personali, il prestigio e la statura internazionale di Mario Monti sembravano rendere semplice la trasposizione in policies dei suoi solidi principi liberali ed europeisti. Non è stato così. La cosa meno liberale dell’Agenda è la mancanza di qualsiasi forma di indicazione quantitativa, che consenta la trasparenza delle scelte di governo e l’essenziale forma di controllo democratico sui risultati ottenuti. Manca non solo qualsivoglia numero a consuntivo dell’azione di governo appena conclusa, ma ben più gravemente, sono assenti i target quantitativi di quella futura. A fronte del ribadito impegno a rispettare il fiscal compact, ovvero di ridurre lo stock di debito pubblico di circa 50 miliardi all’anno a Pil costante, sono carenti le indicazioni sulle fonti e sui mezzi per recuperare tale enorme somma.

Se l’Agenda Monti intendesse invece ribilanciare il rapporto debito/Pil sperando sulla crescita del denominatore, dovrebbe prospettare per l’economia nazionale una crescita costante per vent’anni a tassi medi annuali che non si vedono più dai tempi del boom economico. Nessun governo sinceramente liberale fa promesse così prive di fondamento sulla crescita. Nessun governo liberale promette di incrementare gli “investimenti pubblici produttivi (?)” senza specificare le fonti di finanziamento, se non con l’ulteriore aumento della pressione fiscale grazie alla prospettata tassa patrimoniale, anch’essa non esattamente una bandiera del liberalismo. Al contrario, il bilancio prospettico di medio periodo, estrapolabile dalla combinazione degli interventi proposti, rimane pericolosamente nel territorio della recessione economica e della repressione fiscale. L’algebra insegna che l’unico modo per trovare la radice quadra di un numero negativo é quello di ricorrere ai numeri immaginari. È ciò che fa, in perfetta solitudine politica, l’Agenda Monti.

Un’altra cosa per nulla liberale è confondere i debiti dello Stato con i patrimoni dei privati cittadini. Diversamente da quanto si legge nell’Agenda Monti, gli asset privati  – come i patrimoni e i risparmi delle famiglie – non sono disponibili come collaterale del debito della Repubblica Italiana, salvo diventarlo in modo forzoso. È illegittimo darlo per scontato, senza il consenso degli interessati, che va chiesto e ottenuto. E sarebbe interessante sentire il candidato premier domandare ai contribuenti italiani se sono disposti a mettere tutti i loro beni – immobili, imprese e risparmi – a garanzia del debito contratto dallo Stato, dopo averlo fatto schizzare al record storico di oltre 2.000 miliardi e senza essere riuscito a cambiare il modo in cui esso viene impiegato, da e per la stessa casta di notabili politici.

Punto non meno dolente è quello sull’organizzazione. L’Agenda Monti non ha alle spalle un movimento politico diffuso e manca completamente di radicamento territoriale. Non potrà certo costruirlo in pochi giorni, specie se verrà applicato alle liste elettorali il principio della cooptazione di vertice, imponendo candidati di stretta osservanza. Inoltre l’Agenda Monti non dispone di risorse economiche autonome per gestire la campagna elettorale. E non ci sarà tempo per raccogliere fondi dai simpatizzanti, salvo riceverne in extremis da qualche generoso finanziatore privato, si spera con l’impegno all’assoluta trasparenza e con chiara evidenza dei possibili conflitti d’interesse. A essere sponsor dell’Agenda Monti sono senza dubbio – e in maniera perfino smaccata – alcuni gruppi editoriali nazionali, che si sono sentiti garantiti dalle sostanziali conferme sui sussidi alla stampa e dalla protezione degli interessi dei propri azionisti di riferimento. Ci sarà anche l’apporto dell’immancabile grancassa filogovernativa della Rai, opportunamente colonizzata dai nuovi burocrati di nomina tecnica.

Ma il web sarà difficilmente terreno amico. L’imbarazzante balbettio, ai limiti dell’analfabetismo digitale, che ha caratterizzato le prime uscite dell’Agenda Monti sulla Rete hanno tolto gli ultimi dubbi sulla sostanziale assenza di una moderna cultura del confronto dialettico via Internet. La défaillance della cultura montiana sul web ha attraversato l’intero anno di governo tecnico, trascorso senza che né Palazzo Chigi né i principali ministri, salvo lodevoli eccezioni individuali, ritenessero di rendersi disponibili ad alcuna forma di confronto, via Twitter o Facebook, come invece fanno da anni i principali attori istituzionali in Occidente. Difficile, per il 50% degli italiani che usa il web, dar credito su questo punto alla debole agenda di un premier uscente che il primo giorno promise “consultazioni pubbliche via Internet sui provvedimenti legislativi”, e che non solo non ha fatto niente del genere ma ha impiegato 13 mesi per partorire un primo abbozzo di agenda digitale ratificandola in extremis nelle ultime ore della legislatura.

Improbabile che la pubblicazione di un testo non impaginato, su un sito statico dal design vagamente bulgaro, dove sono intenzionalmente disabilitati i commenti dei visitatori, lanciato da un account Twitter non autenticato e con zero following, possa essere considerato elemento credibile di modernità dagl’italiani che abbiano un minimo di dimistichezza con i mezzi digitali.

L’unico modo per supplire a questa grave carenza organizzativa sarà quello di tentare di forzare i movimenti dei propri sostenitori dentro alla camicia di forza di un listone unico, utilizzando le strutture territoriali dell’Udc al Centro-Sud e la rete di presenza di Italia Futura al Nord, prendendo a prestito dal partito di Casini l’esonero dalla raccolta di firme. Ma colonizzare struttura e liste locali con decisioni centralizzate rischia di delegittimare fin da subito il nuovo movimento agli occhi degli elettori.

Dopo vent’anni di gestione personalistica del centrodestra, e con un Pd che sembra aver definitivamente imboccato la coraggiosa strada delle primarie, questo genere di metodi sembrava relegato ai libri di storia. Che la politica italiana abbia bisogno, più che di salvifiche agende calate dall’alto, di un robusto metodo democratico e della mediazione di organizzazioni radicate sul territorio lo afferma con chiarezza anche il ministro Fabrizio Barca, il quale si è guadagnato sul campo un ampio apprezzamento come esponente più attivo e pragmatico del governo tecnico.

Il progetto dell’Agenda Monti, in conclusione, è interessante e in molti punti doveroso nel quadro degli impegni internazionali del Paese, ma non sembra avere un chiaro mercato politico né locale né nazionale. L’offerta di policies che propone è in linea con le attese dei partner europei, ma non certo con la pancia degli italiani, ed è tuttora presentata in modo arido e impersonale, e appare calata dall’alto, senza dialogo né coinvolgimento. Coinvolgimento che invece costituirebbe la benzina per mettere in moto l’organizzazione sul territorio, che non c’è e andrebbe o cooptata forzosamente o inventata in pochi giorni. L’Agenda Monti, senza un radicamento popolare, rischia di rimanere rintanata nel solco della sua origine, cioè quello di un’operazione di vertice e di alleanze tattiche, tutta interna al sistema dei partiti. Per quanto tempo, nella nuova legislatura, funzionerà il contrappeso di un gruppo di parlamentari di stretta osservanza montiana a controbilanciare la gioiosa macchina da (ulteriori) tasse e spesa pubblica del PD di Bersani? Una raccolta di editoriali, per quanto lucidi e illuminati, non basta a fare un programma di governo del Paese.

 



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