Le grida di Bamako e di Timbuctù attraversano il Mediterraneo e giungono fino a noi con drammatico ritardo. Il Mali sta morendo. Il presidente Dioncounda Traoré ha lanciato l’ultimo l’ultimo appello pochi giorni fa, dopo che il gruppo fondamentalista Ansar Eddine, legato ad Al Qaeda, aveva annunciato di aver conquistato il villaggio di Konna, dopo aver sterminato donne, bambini e uomini inermi, devastato tutto il nord del Paese ed aver compiuto atti vandalici contro monumenti religiosi e civili del Paese. La stessa tecnica terroristica esercitata in Afghanistan quando i talebani ed i miliziani di Bin Laden distrussero i Buddha di Bamyan. L’intervento dell’esercito francese, su mandato dell’Onu (che ha deliberato dopo l’annuncio dell’intervento da parte del presidente Hollande) per quanto indispensabile è terribilmente tardivo. E, soprattutto, é “solitario”. Ci saremmo aspettati che tutta l’Europa intervenisse: a proposito, non è Romano Prodi il “supervisore” delle Nazioni Unite per la regione del Sahel? Finora non ce n’eravamo accorti.
L’offensiva jihadista non si ferma, nonostante l’intervento francese. Se i terroristi dovessero arrivare a Bamako la penetrazione qaedista sarebbe facilitata in tutta l’Africa centrale dall’appoggio che nel Niger, in Sierra Leone, nel Burkina Faso troverebbero. Ed é tutt’altro che improbabile che le forze che s’insedierebbe in quell’area si collegherebbero con quelle che già si sono impadronite della Somalia e di buona parte di aree del Corno d’Africa. La prospettiva di un grande califfato africano non sarebbe più tanto fantasiosa. Nei Paesi nordafricani, rivieraschi del Mediterraneo, salafiti e fratelli musulmani non attendono altro. Sarebbe la degna – si fa per dire – conclusione della cosiddetta “primavera araba”, uno dei più grandi abbagli dell’Occidente che ha innescato nuovi autoritarismi ed una tendenza a “colonizzare” Paesi che godevano di qualche libertà con la sharia.
I jihadisti che stanno mettendo a ferro e fuoco il Mali vengono dalla Tunisia, una nazione irriconoscibile dai tempi di Ben Alí e trovano appoggi nell’Egitto di Morsi, non meno intollerante dello spodestato Mubarak. E chi si illude che la Libia non sia un laboratorio di qaedismo diffuso e spontaneista, s’illude. La “primavera” andava presa per mano e coltivata. Ma in Europa si riteneva che dal Maghreb al Mashrek fiorisse come d’incanto il giardino profumato della democrazia. I crimini l’imbecillità sono incalcolabili. Oggi nel Mali, ieri in Libia, prima ancora in Ruanda, domani nel Congo… L’Europa e gli Stati Uniti sono oggettivamente responsabili sia per aver chiuso gli occhi sulla penetrazione qaedista che sulla “colonizzazione” cinese altro capitolo della tragedia africana.
Se avessero preso per tempo contezza di ciò che si agitava nel Mediterraneo meridionale, probabilmente si sarebbero creati i presupposti per normalizzare immediatamente le nazioni che si scrollavano di dosso decenni di vessazioni. Inutile, comunque, piangere sul latte versato, si dirà. È vero, ma a condizione che l’Unione europea elabori una strategia complessiva d’intervento se non vuole che il Maghreb, il Sahel, l’Africa australe si trasformino in tanti Afghanistan con evidenti ricadute nei nostri Paesi i quali già dovranno fronteggiare una crisi umanitaria che nel giro di qualche mese potrebbe assumere dintorni apocalittici. Non è escluso che se non dovessero consolidarsi nuovi equilibri, l’islamismo, nelle forme del settarismo terroristico, non intervenga a svolgere la sua criminosa funzione di supplenza “somalizzando” i Paesi più esposti, alimentando, magari, anche la folle ambizione di creare un califfato mediterraneo.
Soltanto adesso facciamo i conti con la retorica delle politiche statunitensi ed europee nell’area mediterranea, mediorientale ed africana che ha favorito la percezione in Occidente di una realtà falsata dalle esigenze di una realpolitik da straccioni, paga soltanto di assicurarsi commesse petrolifere da dittatori sanguinari e tragicamente ridicoli. Le rivolte in Tunisia, in Algeria, in Egitto, in Libia, in Bahrein, ed i possibili rivolgimenti in Libano, in Siria, in Giordania, nello Yemen e perfino in Arabia Saudita e le drammatiche vicende maliane, sudanesi,mio male, congolesi, e non solo, dimostrano che l’effetto domino temuto è diventato un vero e proprio “contagio” in un’area che si riteneva sostanzialmente stabile perché si faceva affidamento sull’inossidabile trasmissione del potere da parte dei dittatori ai loro familiari. E già questo avrebbe dovuto far sobbalzare le coscienze dei “custodi della democrazia”in Occidente.
Come mai nei Paesi europei non si è mai avuta la consapevolezza di ciò che poteva accadere dove il potere autocratico di alcune inossidabili nomenklature aveva impoverito le popolazioni e negato i diritti elementari? La risposta è semplice. Gli Stati Uniti e l’Europa hanno sempre favorito, anche di fronte ad una evidenza che li avrebbe dovuti sconsigliare, la stabilità dei regimi che stanno cadendo o sono caduti a scapito dell’incoraggiamento, come era da attendersi dopo i fatti iracheni, di reali processi di democratizzazione che si stavano manifestando nell’area e che soprattutto l’Unione per il Mediterraneo, ormai agonizzante, non ha saputo o voluto vedere.
Erroneamente si è ritenuto che nei paesi africani ci fossero solamente singoli individui coraggiosi di orientamento “liberale”, ma che non esistesse un’opinione pubblica capace di sovvertire l’ordine dei regimi autoritari. L’Europa adesso considera la nuova realtà bruscamente manifestatasi in nordafrica ed enfatizzata oltremisura senza considerarne le conseguenze negative e non sembra che sappia bene che cosa fare, oltre i bombardamenti di prammatica. Sentiamo parlare ancora di interventi umanitari e di contenimento degli effetti collaterali delle rivolte popolari che si oppongono al l’islamizzazione. Speriamo non si tratti di espedienti di breve respiro. Accanto a tutto ciò occorre adottare politiche tese a diffondere la democrazia proponendola, non certo con la forza, come riferimento civile e culturale, prima che politico e fornire naturalmente aiuti atti a favorire la crescita di quelle società e di quei ceti disponibili all’avvio di un processo di partecipazione popolare nelle istituzioni e che guardano all’Europa con speranza. È il solo modo per opporsi all’islamizzazione. Vasto programma certamente; ma con la politichetta furbesca e priva di ambizioni abbiamo visto quali risultati si ottengono. Meglio cambiare orientamento, dunque.
Scrivo queste note ricordando la dolcezza di Bamako, i suoi colori, la musica struggente di una kora che diffonde sentimenti d’amore. Bamako, la mia Salisburgo africana… Sopravviverà? Ballaké Sossoko, Seckou Keita, Sina Sinayoko, Toumani Diabaté m’inondano con le loro melodie che ascolto continuamente in questi giorni. Non so se nelle strade di Bamako arrivano ancora note musicali o il crepitio delle lontane mitragliatrici sia già diventata la nuova colonna sonora di donne bellissime e terrorizzate che un tempo sorridevano e danzavano con eleganza, senza malizia.
Amadou e Mariam accolgono l’occidentale frastornato con “Welcome to Mali”, mescolando sonorità indigene a tonalità occidentali. So che i loro connazionali la pensano allo stesso modo.
Spero di essere ancora il benvenuto come tutti coloro che amano il Mali.