Interessantissimo ed ancora da digerire l’ultima fatica del celebre storico economico Barry Eichengreen di Berkeley – appena uscito sui Working Papers del NBER – e scritto assieme a Livia Chitu ed Arnaud Mehl.
Che questi due, meno conosciuti, siano ricercatori della BCE, la dice lunga sul fatto che a Francoforte il tema del lavoro in questione debba essere considerato rilevante.
E come non potrebbe esserlo. Leggiamo dalla sintesi:
“in questo lavoro analizziamo i flussi bilaterali di investimenti finanziari grazie ai dati sul possesso di attività finanziarie estere da parte di investitori Usa. Documentiamo un “effetto della Storia” laddove l’andamento della detenzione di titoli esteri da parte di cittadini e imprese Usa nel 1943 riesce ancora a spiegare la detenzione di questi, per Paese di emissione del titolo, nel 2010: tra il 10 e 15% delle variazioni odierne tra Paesi nella detenzione da parte degli Stati Uniti di obbligazioni estere è spiegata dalla detenzione in quello stesso Paese 70 anni prima, plausibilmente riflettendo costi fissi di ingresso ed uscita dei singoli mercati e di effetti apprendimento. Addirittura per le obbligazioni in dollari emesse da Paesi non Usa, è il 30% delle detenzioni odierne ad essere spiegata da quanto ne venivano detenute alla fine del secondo conflitto mondiale sempre da cittadini ed imprese Usa.”
Insomma: cosa fa sì che oggi un mercato finanziario di un Paese sia più appetibile ai più grandi investitori mondiali (gli Usa) che un altro? Risposta: quanto hanno appreso di tale mercato i nonni degli investitori Usa di oggi, detenendone sin da allora le sue emissioni (obbligazionarie ed azionarie), in valuta estera o in dollari. Insomma di nuovo: il mercato finanziario italiano è oggi un mercato attraente per gli Usa? In gran parte, se lo è, lo è perché nel 1943 (o prima, chissà quando!) negli Usa si decise di avventurarcisi.
Qualche eccezione? Certo. Cuba, di cui il grande Impero del XX secolo fu grande creditore prima e da cui scappò a gambe levate dopo. Ma è l’eccezione che conferma la regola: ci vuole un Fidel per … s-fidelizzare una scommessa di lungo termine (investire lontano da casa) che si nutre di un costo iniziale (una tantum) per generare informazioni utili su un Paese poco noto ma anche, se questa informazione è positiva, propagandosi rapidamente e gratuitamente tra gli investitori, di ricavi che incentivano a detenere sempre di più attività finanziarie emesse in quel Paese.
Leggiamo meglio:
“… le società finanziarie fronteggiano costi fissi quando investono nell’abilità di valutare il merito di credito di bond emessi all’estero. Fronteggiano costi di avviamento quando cercano di distribuire e pubblicizzare i titoli emessi da paesi esteri ai risparmiatori domestici… E così la penetrazione estera da parte delle banche USA non fu uniforme: sproporzionatamente concentrata in America Latina e Europa Occidentale, lasciando ai rivali britannici il Commonwealth, assieme a Scandinavia e Europa dell’Est… E’ plausibile che la geografia degli investimenti internazionali creatasi tra le due guerre possa avere avuto una vita di lunga durata… Anche un piccolo vantaggio informativo riduce la percezione di rischio degli asset, cosa che incoraggia gli investitori a detenerne ancora di più. Ciò a sua volta induce gli investitori ad apprendere ancora di più su tali titoli, rendendoli ancora più interessanti.”
Come ha inciso l’avvento dell’euro su tutto questo non è argomento che gli autori affrontano, forse riservandolo ad un prossimo lavoro. L’Europa ha guadagnato come attrattività di “porto finanziario” per il viaggiatore americano dalla creazione dell’euro?
Difficile rispondere. Il folle apprezzamento dell’euro dalla sua creazione ad oggi, che tanto ha depresso il nostro export, potrebbe essere in parte figlio di un apprendimento positivo sulle caratteristiche di questo mercato o invece semplicemente figlio della politica monetaria molto più restrittiva seguita nel decennio dalla Bce rispetto alla Fed.
Ma un qualche tentativo di immaginare una risposta possiamo farlo, guardando a costi e benefici di apprendere le caratteristiche di questo nuovo, gigantesco, mercato finanziario creato non da una nuova nazione, ma da una nuova moneta.
L’euro ha certamente obbligato gli investitori Usa a nuove spese per apprendere di questo mercato, ma è quasi certo che l’enorme dimensione potenziale di questo mercato liquido non li deve avere scoraggiati dal farlo. Quanti investitori si sono precipitati in tutte le capitali europee per capire meglio cosa sarebbe stato questo euro? Migliaia, alla fine del secolo scorso.
Quanto hanno appreso di questo mercato? E quanto hanno appreso di cose positive? Sono queste le due vere domande a cui dobbiamo rispondere per capire se i benefici hanno superato i costi e hanno reso il “porto” EUROpeo un porto sicuro ed attraente, al riparo dalla tempesta, per gli investitori mondiali.
Hanno certamente, gli investitori mondiali, imparato dei trucchi di bilancio dei governi europei (come quello greco) coperti dal silenzio e forse dall’assenso dei politici europei. E certo non aiuta l’imbarazzante, misterioso e poco etico rifiuto della Bce, ancora oggi, di rendere noti i dettagli delle transazioni finanziarie dei primi anni del 2000 tra Grecia e Goldman Sachs in suo possesso che hanno avviato l’incendio europeo che si è rapidamente esteso nel Continente. Sono informazioni o mancanza di informazioni che impediscono ancora oggi a molti investitori esteri di avvicinare il porto europeo, ritenendolo troppo esposto ai venti forti delle tempeste delle frodi ed inganni finanziari che mettono a repentaglio i risparmi degli individui.
Certamente hanno anche visto che il Trattato di Maastricht che fu non esiste più. Hanno visto che uno Stato che emette in valuta “euro” viene soccorso in ultima analisi dai Governi dell’area, o dalla sua banca centrale, aiutando le banche ai danni dei contribuenti e contro la promessa iniziale che mai nessuno Stato sarebbe stato aiutato in caso di default.
Ma hanno imparato che non possono nemmeno essere certi di un salvataggio chiaro e senza ambiguità: visto che parte del default greco lo hanno subito e che non vi saranno mai abbastanza risorse per salvare tutti i Paesi in crisi simultaneamente, come oggi nella tempesta perfetta.
Insomma, non hanno imparato praticamente nulla sulla cosa più importante e cioè su quali basi si regga il Patto che ogni debitore che si rispetta deve costruire con i suoi creditori nel lungo periodo per fronteggiare pragmaticamente le diverse crisi dentro le quali anche i migliori debitori finiscono sempre per inciampare.
Insomma no, cari ricercatori BCE, non illudetevi: questi 10 anni passati non hanno ancora convinto nessuno nel resto del mondo che siamo un porto sicuro dove approdare. Anzi, al contrario, la stupida austerità, lo stupido mandato solo anti inflattivo della BCE, lo stupido Fiscal Compact, lo stupido braccino dei nostri “leader”, terrorizza più che rassicura.
Ma, in ultima analisi, quello che terrorizzerà i mercati esteri sull’Europa sarà la mancanza di quella dimensione “umana” di una Unione politica che porta qualsiasi progetto nel lungo periodo a naufragare, come ha insegnato brutalmente il brutale XX° secolo.
Perché se nell’azione politica non si mettono al centro gli uomini e le donne e le loro speranze, ma la contabilità ed il mero potere, statene certi, la crescita di opportunità e occasioni si impicciolirà sempre più, spaventando sempre più i mercati finanziari che finiranno per fare quel che fecero per Cuba: trovare lidi più sicuri, dove continuare a scommettere per la crescita.