Articolo tratto dal numero 54 (Dicembre 2010) della rivista Formiche
Nei giorni immediatamente seguenti l’elezione di Benedetto XVI al soglio di Pietro, molti osservatori hanno profetizzato che certamente egli avrebbe dato un’impronta marcatamente ecclesiologica al suo pontificato. A fare presagire questa predilezione vi erano importanti pubblicazioni che Joseph Ratzinger aveva dedicato in precedenza al tema della Chiesa, ampiamente conosciute dagli studiosi.
Tra tutte spicca il magnifico volume del 1967 titolato Nuovo popolo di Dio, una raccolta di saggi che contiene, per l’appunto, un quadro riassuntivo dell’evoluzione delle idee teologiche del professor Ratzinger sulla Chiesa, maturate nel periodo che ruota attorno ai lavori del Concilio Vaticano II, ossia nei primi anni ‘60. In verità, lo sforzo permanente del magistero di Benedetto XVI è stato poi quello di riportare il cristianesimo alle sue radici autentiche, accendendo la consapevolezza dei fedeli sull’importanza di accompagnare la fede personale alla comprensione ultima della Rivelazione.
D’altronde, nel pensiero di Ratzinger è costante la persuasione che non possa esistere teologia senza Chiesa, e che, per di più, non possa esistere la Chiesa senza quel primato della dimensione sacramentale che assicura il mantenimento dello spirito nativo del cristianesimo. Perciò, può essere utile riflettere su alcuni aspetti fondamentali della profonda visione ecclesiologica di Benedetto XVI, anche solo concentrando l’attenzione su alcuni scritti particolarmente stimolanti. Spesso in saggi e conferenze di occasione Ratzinger ha proposto efficacemente tesi sistematiche e decisive, maturate a contatto con la grande tradizione scolastica, proponendo sintesi teologiche magistrali. Un esempio di rilievo è il discorso tenuto in occasione del conferimento del titolo di dottore in Teologia all’Università di Breslavia, ripreso in seguito come scritto d’abbrivio nel volume del 2002 La comunione nella Chiesa. Il titolo emblematico è “Fede e teologia”.
L’argomento principale costituisce per noi uno strategico punto di partenza, provando la stretta connessione che esiste tra la teologia cristiana e l’esistenza materiale della Chiesa. Il discorso del papa assicura una definizione plastica della nozione di “credenza”. La fede come atto personale implica un accesso diretto dell’uomo ad una verità creduta, la quale è afferrata e interiorizzata apertamente solo con il “credere”. Ciò sembra produrre all’istante un lacerante paradosso. Una verità creduta, essendo incerta, come può fare da guida all’intera vita di una persona? La risposta esige la capacità di saper distinguere nettamente la corretta definizione di credenza, propria solo della fede, da altri tipi di assenso fondati unicamente sulla mera opinione provvisoria. La tradizione scolastica può venire in aiuto. San Tommaso, nel De veritate, affermava che la fede sta a metà strada tra il dubbio e la certezza scientifica.
Della prima ha l’elemento di fiducia e di attesa, della seconda la fermezza del contenuto creduto, derivato dall’autorevole valore della verità. Ciò significa asserire, seguendo sant’Agostino, che l’intelligenza umana, mediante la fede, accede ad una verità che è, al contempo, trascendente e razionale, irraggiungibile e disponibile. E questo è il primitivo ed originario legame che esiste tra la fede e la teologia, o, per dirla con le parole di san Bonaventura, tra il credibile e l’intelligibile. La Rivelazione, insomma, compresa e accolta si apre alla libera intelligenza di ciascuno. L’esperienza teologica della verità è, perciò, inseparabile dalla Chiesa. La verifica giace sulla persuasione essenziale che ad unire teologia e Chiesa è il tipo di verità che l’annuncio del Regno di Dio sottende. In un libro intitolato La Chiesa del 1991 Benedetto XVI spiega, con precise argomentazioni teologiche, che tutto il Nuovo Testamento conferma l’origine e la natura provvidenziale dell’istituzione. “Gesù è venuto per riunire quelli che erano dispersi”, partendo dalla concezione giudaica, secondo la quale il Regno di Dio consiste nel radunare e purificare il popolo di Dio. “Perciò – prosegue Ratzinger – la sua opera sta nel convocare il popolo di Dio, per cui tutti divengono una cosa sola”. È chiaro così perché non possa esserci un’esperienza personale della fede senza l’appartenenza comunitaria alla Chiesa, nella quale, per l’appunto, il popolo di Dio si riunisce per conseguire la salvezza. Ciò spiega l’uso che San Paolo fa delle allegorie stoiche e platoniche che ritraggono la cristianità come un sistema simile ad uno Stato o un organismo simile ad un essere vivente.
Sono metafore volte a mostrare che Gesù ha fondato “un nuovo popolo di Dio” che ha come fine la Chiesa come comunità perfetta, visibile ed invisibile, costituita di differenti elementi intimamente collegati ed adeguati. Di qui deriva la funzione costitutiva che hanno i sacramenti nel fissare la referenza unica e universale che compendia l’unione sponsale tra Dio e il genere umano. “Il mistero eucaristico – chiarisce il papa – è il nucleo del concetto di Chiesa e della sua definizione mediante la formula Corpo di Cristo”. D’altronde, non si può trascurare, in questo caso, l’influenza avuta nella maturazione dell’articolata concezione ecclesiologica di papa Ratzinger dalla grande meditazione sull’interiorità spirituale di Romano Guardini. Il risultato, in realtà, è un’interpretazione geniale della vicenda narrata negli Atti degli Apostoli. Alla Pentecoste Dio consacra l’autorità apostolica con la discesa dello Spirito Santo, innalzando il carisma universale e cattolico del sacerdozio. Un assunto che è di capitale importanza per cogliere la specificità della Chiesa romana rispetto ad altre forme comunitarie di aggregazione cristiana. Il papa ritiene che “sulla base di Luca è da escludere la concezione secondo la quale sarebbe sorta in Gerusalemme una Chiesa particolare, a partire dalla quale si sarebbero formate via via altre Chiese particolari: Luca vuole affermare semmai che nel momento della sua nascita la Chiesa era già cattolica, era già universale”. Ma, allora, qual è la caratteristica risolutiva che dà realmente alla comunità apostolica il segno specifico di Chiesa universale? La risposta è custodita nel primato di Pietro, posto da Gesù stesso a tutela dell’unità indissolubile e permanente del popolo di Dio come comunità eletta. Il rilievo della superiorità petrina trova conferma concreta in molti scritti del Nuovo Testamento, citati, non a caso, da Ratzinger in molte sue opere. L’analisi più interessante sull’argomento è senza dubbio il capitolo VI del già citato volume La comunione nella Chiesa, dove il papa offre un resoconto eccezionale del lavoro teologico da lui svolto come cardinale alla Congregazione per la dottrina della fede. Il saggio, intitolato “L’ecclesiologia della costituzione Lumen gentium”, assicura che la specificità propria della tradizione cattolica è l’incontro tra fede e ragione che eleva l’uomo al soprannaturale per mezzo dell’inserimento positivo di ogni battezzato nel piano eterno di salvezza affidato da Dio alla Chiesa. Per Benedetto XVI è Gesù stesso, e solo Lui, che istituisce la Chiesa nel tempo, conferendole un’indole istituzionale consacrata dallo Spirito Santo. Ciò ha un valore immenso, perché pone l’autorità del papa sopra le comunità particolari come un soggetto sacro e pubblico “che è esattamente il contrario del relativismo ecclesiologico”. Alla fine, la dinamica della fede personale non può compiersi mai autenticamente senza l’esistenza di un legame personale e comunitario con l’istituzione divina della Chiesa, nella quale “sussiste”, come recita la Lumen gentium, l’unico corpo mistico di Cristo impersonato dal papa. Una conclusione che ribadisce il nocciolo teoretico dell’enciclica Mystici corporis di Pio XII, secondo cui nella presenza visibile della Chiesa romana risiede l’essenza di quella universalità che è pretesa affinché la salvezza sia veramente a disposizione della fede e della libertà storica di tutta l’umanità.