E’ uno degli argomenti di maggior contrasto tra scienza biomedica e ampi settori dell’opinione pubblica in tutto il mondo. In Italia, é dell’anno scorso la campagna contro Green Hill – l’azienda in provincia di Brescia, in cui venivano allevati cani di razza beagle destinati alla sperimentazione – che ha portato al sequestro dell’allevamento e alla liberazione dei 2.600 cani presenti.
Le posizioni animaliste trovano giustificazione nell’empatia che tutti provano per la cavia di laboratorio. Io personalmente non ho mai fatto sperimentazione con animali. Ma devo ammetterlo: ho utilizzato come ricercatore e anche come utente del servizio sanitario reagenti e farmaci che prevedono l’uso dell’animale. Sono innumerevoli le sostanze utilizzate in medicina la cui messa a punto o addirittura produzione prevede l’impiego di animali. Inoltre la normativa internazionale e nazionale richiede che ogni farmaco prima di venir commercializzato sia provato su diverse specie animali per valutare la sua tossicità e per verificare la sua attività terapeutica.
Ritengo che ognuno nel fare la sua valutazione sull’argomento debba considerare una serie di aspetti (anche le sofferenze dei malati) ed evitare di cadere in eccessi talvolta ridicoli come quello di scaldarsi per le sofferenze dei topolini di laboratorio e chiamare il “rat service” per uccidere i ratti del cortile. O ritenere disumano un esperimento scientifico che comporta la morte di un feto di topo e contemporaneamente criticare le posizioni della chiesa contro l’aborto.
Detto questo è ovvio che dobbiamo cercare di ridurre il più possibile la sperimentazione animale. In Italia e in Europa esistono leggi che tutelano il diritto degli animali e ne consentono l’uso solo se e quando è strettamente necessario, cioè quando i test non possono essere fatti con simulazioni al computer, su colture cellulari o tessuti oppure non fanno già parte di conoscenze acquisite con sperimentazioni precedenti e che quindi sarebbe inutile ripetere.
Gli sviluppi tecnologici degli ultimi anni sicuramente ci aiuteranno a trovare soluzioni alternative. E’ altresì ovvio che la complessità dei sistemi biologici, le interazioni tra cellule e tessuti differenti non permettono attualmente di escludere i sistemi modello senza i quali non ci sarebbe ricerca in campo biomedico.
L’obiezione ormai più diffusa è che i test su animale non servano a nulla. E’ di questi giorni un articolo pubblicato sull’Espresso da titolo “A chi servono i test su animali” (http://espresso.repubblica.it/dettaglio/a-chi-servono-i-test-su-animali/2200058) che già nel titolo suggerisce oscuri interessi economici dietro l’impiego inutile dei modelli animali nella sperimentazione.
Due sono i messaggi principali contenuti in questo articolo:
1) “Abbondanti dati scientifici dimostrano che la sperimentazione animale è inutile e che la trasposizione dei risultati all’uomo fallisce quasi nel 70 per cento dei casi (nella ricerca di base i fallimenti sono del 99,996 per cento)”.
2) I modelli animali non sono adatti per studiare la malattia nell’uomo e conseguentemente non servono a sviluppare approcci terapeutici adeguati. “La cosiddetta strada maestra per la cura del cancro non può portare (salvo fortuite coincidenze) a risposte utili per l’uomo: diverse ricerche hanno rivelato che l’animale non è predittivo negli studi di cancerogenicità (A.Knight et al. 2006) e che il processo di tumorigenesi è diverso nel topo e nell’uomo (Rangarajan & Weinberg 2003).”
Mi chiedo quale perversione o cospirazione internazionale induca la comunità scientifica a considerare essenziale l’uso dei modelli animali per capire la funzione di un gene o una proteina, quali siano i circuiti che regolano lo sviluppo degli organi e dei tessuti o la diffusione dei tumori.
Per suffragare le due tesi, l’autore dell’articolo cita alcuni di studiosi importanti nel campo dello studio dei tumori come ad esempio Robert Weinberg del MIT.
La sensazione è che in molti casi le frasi vengono travisate togliendole dal contesto. Ad esempio il Prof. Weinberg viene citato come scienziato antivivisezionista per una dichiarazione riportata su Fortune nel 2004: «Ogni anno le industrie farmaceutiche sprecano migliaia di milioni di dollari usando come modelli i roditori nella ricerca oncologica». Peccato che il Prof. Weinberg, scopritore del primo oncogene e del primo anti-oncogene e uno tra i maggiori esperti nello studio dei meccanismi alla base della diffusione dei tumori, utilizzi gli animali per la sua ricerca.
Il concetto corretto è che ogni tumore è un sistema complesso in continua evoluzione. Molti modelli animali non tengono conto di questa complessità e considerano il cancro non come una malattia multigenica ma come una malattia genetica semplice. Ma anche questi modelli ci permettono di comprendere cose importanti. E’ vero, il topo è molto diverso dall’uomo. Noi non siamo, come si dice nell’articolo dell’Espresso, topi di 70 chili. Se volessimo utilizzare modelli migliori dovremmo spingerci più su nella scala evolutiva e utilizzare le scimmie meglio se antropomorfe. Ma questo ovviamente creerebbe ulteriori problemi etici e di spesa.
Quello che tutti i ricercatori di tutto il mondo fanno è di cercare di capire la complessità dei sistemi biologici utilizzando i modelli più disparati dai batteri alle scimmie, passando da lieviti, rane, pesciolini, topi, ratti e cani. Cerchiamo di fare il nostro meglio con i modelli che abbiamo per capire qualcosa sull’uomo.
Non esiste una cospirazione contro le cavie. Non esiste una Spectre che ha come scopo quello di fare il male degli animali senza ottenere nessun utile per l’uomo. Certo, vengono fatti errori, esistono sicuramente scienziati che sbagliano o che non sanno fare il loro mestiere come in tutte le professioni. State certi che il sistema dei finanziamenti li penalizza. Ma la ricerca progredisce anche attraverso il sacrificio degli animali, impara dei suoi errori per capire le malattie e come curarle.
Se esistesse una cospirazione del mondo capitalistico contro gli animali, la logica interna del mercato, il desiderio di successo, il profitto che è alla base del nostro mondo farebbero si che in qualche angolo del pianeta, nella Russia sovietica di qualche anno fa, o in Cina ora, qualcuno troverebbe la soluzione alternativa e farebbe la sua fortuna.