Lo ha seguito con attenzione, intrecciando le difficili fasi che il capo dello Stato ha dovuto affrontare in questo settennato, con il metro di valutazione che un intellettuale cresciuto in un tessuto culturale e napoletano del dopoguerra ha adottato. Paolo Franchi, giornalista di lungo corso e autore del pamphlet “Giorgio Napolitano – la traversata da Botteghe oscure al Quirinale” (Rizzoli, 2013) ripercorre con Formiche.net i tratti salienti del mandato appena concluso, auspicando per il successore al Colle una donna, ma a patto di un nome condiviso.
Franchi, lei scrive nel libro appena uscito per Rizzoli che “probabilmente Giorgio Napolitano non avrebbe gradito affatto, nemmeno nell’aprile del 1944, essere definito un intellettuale di avanguardia, come ha detto Togliatti e come vuole un lessico marxistaleninista che gli è sempre andato stretto”: per quali ragioni?
Era quel famoso discorso di Togliatti alla federazione napoletana passato alla storia come la svolta di Salerno in cui, sostenendo la questione dell’unità nazionale, citava gli intellettuali d’avanguardia. Napolitano non avrebbe gradito quell’epiteto perché proveniva da altri ambiti. Sì intellettuale, giovanissimo, aveva 19 anni, di formazione borghese, suo padre era un importante avvocato “crociano”. Crebbe assieme a un gruppo di giovani intellettuali al liceo Umberto e poi all’Università, fino al Guf di Napoli e alla rivista “9 maggio”. In modo particolare per il Pci il rapporto tra politica e cultura è stato un passaggio centrale, all’interno di un interscambio che fu molto profondo.
Raffaele La Capria, Giuseppe Patroni Griffi, Rosellina Balbi, Antonio Ghirelli. Cosa hanno significato questi personaggi nel percorso di vita di Napolitano?
Un gruppo di giovani con al centro le arti e l’impegno civile che erano maturati, assieme, nella Napoli della guerra. Una realtà da un lato complessa e contraddittoria, dilaniata dai bombardamenti e con seri problemi di sopravvivenza. Ma dall’altro anche di grande vivacità, dove ebbe un ruolo Benedetto Croce che tra l’altro è stato più volte citato proprio negli ultimi interventi recenti di Napolitano.
Non si aspettava di chiudere il settennato in modo surreale, così come lui stesso ha ammesso giorni fa?
Fu eletto dal solo centrosinistra che in qualche modo ci arrivò alla sua candidatura, mentre inizialmente la segreteria del partito puntava su D’Alema. In quell’occasione il no di Berlusconi non fu scontato, ma ci pensò su parecchio, mentre ad esempio Casini era propenso al sì. Nel suo discorso di investitura, quando disse che sarebbe stato il presidente di tutti e non solo della sua maggioranza, si assegnò una missione: il compimento delle vicende legate al bipolarismo della politica italiana e il passaggio, sotto tutti i profili, a una democrazia dell’alternanza matura. Lo scorso dicembre ha definito lui stesso quelle speranze che lo avevano animato, eccessive, se non proprio infondate. E per un eccesso di ottimismo. Ma è stato un settennato in cui ne sono successe di tutti i colori, non dimentichiamolo e ben prima del novembre 2011 con l’avvio del governo tecnico. Le cose che ha fatto in questa direzione hanno avuto, più che un riscontro di stampo politico, un riscontro all’interno del paese. Cito per tutte le celebrazioni del 150esimo che non sono state né retoriche né formali, ma uno dei più grandi successi della sua presidenza. Certo, di chiudere così non se lo sarebbe aspettato. E qui c’è la vexata quaestio di Monti senatore a vita.
Una scelta di cui si è pentito?
Per come la vedo io non si è pentito, dovremmo tornare con la mente allo stato delle cose nel paese in quel momento. Penso siano sbagliate anche le ricostruzioni che adesso tutti si affrettano a fare circa un possibile scioglimento delle Camere in quella circostanza. Per come venne preparato credo che quello fu un miracolo politico, di cui tutto il mondo diede merito a Napolitano.
Potrebbe essersi sentito tradito quando Monti ha annunciato la “salita” in politica?
Questo è un altro discorso. Credo non abbia minimamente apprezzato né la decisione di fondare un partito contro cui poteva ben poco, trasformandosi, se non proprio da arbitro, ma da quarto uomo in giocatore; né la rapidità con cui il Professore si dimise dopo il discorso pronunciato da Alfano in cui annunciava l’astensione. Non era una vera e propria crisi di governo. Il fatto di non aver portato a termine la legislatura non credo sia stato apprezzato dal Colle.
Chi il più indicato per raccogliere lo scomodo testimone, il ricorso ad una figura “democristiana” o la scommessa di un nome nuovo, magari una donna?
Meglio donna che uomo, sarebbe un indubbio fattore di cambiamento e di crescita per l’Italia. Anche un segnale preciso di evoluzione e di civilizzazione. Ma, al netto di queste valutazioni, credo serva un presidente frutto della coesione e della condivisione. Ecco il metro che serve al paese.
@FDepalo