Alla vigilia dell’elezione del dodicesimo presidente della Repubblica osservo smarrito riti volgari che umiliano le istituzioni e riducono la scelta dell’inquilino del Quirinale ad un mercanteggiamento privo di qualsiasi giustificazione motivazione riferita alla ricerca del migliore possibile in grado di rappresentare teoricamente l’unità nazionale. A sessantacinque anni dall’entrata in vigore della Costituzione non sono ancora stati individuati meccanismi meno arcaici e più partecipativi per eleggere colui che dovrebbe costituire il punto di riferimento civile e morale degli italiani. Un decrepito parlamentarismo, neppure sbiadita immagine di quello che disegnarono i costituenti, si arroga il diritto di mandare sul Colle un signore (o una signora) in ragione di compromessi da basso impero: c’è chi si è spinto in questi giorni a scambiare la presidenza della Repubblica con la presidenza del Consiglio. Una vera e propria simonia laica o secolare, non diversa nello spirito a quanto accadeva tra il Quattro-Cinquecento nell’elezione alla Cattedra Petrina di Pontefici che compravano la loro elezione.
Di fronte ad uno spettacolo tanto avvilente, mi chiedo ancora perché la Repubblica presidenziale debba restare ancora un tabù e non c’è straccio di politico o di intellettuale o di costituzionalista che prenda l’iniziativa di introdurre la discussione intorno a tale tema che non dovrebbe suscitare negative reazioni dal momento che in buona parte del mondo essa funziona magnificamente ed il Parlamento non soltanto legifera in piena libertà, ma esercita un controllo sugli atti presidenziali più di quanto il nostro Parlamento non faccia su quelli dell’Esecutivo.
Il presidenzialismo da sempre è stato uno dei cavalli di battaglia della Destra italiana, ma non soltanto della Destra. Anche all’Assemblea costituente ci fu chi propose, senza successo, all’attenzione la “soluzione presidenzialista”: i rappresentanti del Partito d’Azione e tra essi, in particolare, Piero Calamandrei e Leo Valiani s’impegnarono a fondo in una delle Sottocommissioni dell’Assemblea per far valere le ragioni del presidenzialismo.
Negli anni Sessanta fu il repubblicano Randolfo Pacciardi ad imbracciare la bandiera del presidenzialismo al punto di essere accusato di sovversivismo e di tentazioni “golpiste”. Agli inizi del decennio successivo furono alcuni “giovani leoni”, come si definirono allora, della Democrazia cristiana, aderenti al gruppo “Europa ’70”, che posero all’attenzione le tematiche presidenzialiste. Poi venne la stagione socialista: politici come Bettino Craxi ed intellettuali come Luciano Cafagna rilanciarono, tra la seconda metà dei Settanta e gli inizi degli Ottanta, la necessità di operare un radicale mutamento della forma di governo. Non si può dimenticare, naturalmente, che il Movimento sociale italiano fece del presidenzialismo, fin dalla sua nascita nel dicembre 1946, uno dei temi centrali e più incisivi della sua propaganda istituzionale, da Costamagna ad Almirante. Ricordo anche una fiorente pubblicistica che circa trent’anni fa rianimò il dibattito sul presidenzialismo grazie, soprattutto, all’attivismo del professor Gianfranco Miglio e del cosiddetto “Gruppo di Milano”.
La tematica presidenzialista, quindi, ha avuto lungo corso nella storia della Repubblica, sia da punto di vista dottrinario che nel dibattito politico.
Il presidenzialismo non bisogna considerarlo come una sorta di contropotere, ma come un elemento di equilibrio e di riconoscibilità del processo di formazione della decisione che è uno dei fattori necessari alla modernizzazione del Paese. Da essa, dal momento decisionale “forte”, non si può prescindere se si intende procedere alla modernizzazione sociale e delle strutture civili, se non si dotano, cioè, i centri decisionali di poteri efficaci che, al momento, non dimentichiamo che vengono esercitati da soggetti diversi dalla classe politica, e dunque privi di legittimazione democratica, come supplenti insomma, che agiscono sulla spinta di interessi personali o di gruppo.
Il presidenzialismo, dunque, è un elemento di partecipazione, ma è anche di chiarificazione all’interno dei rapporti tra i poteri dello Stato. Con la sua adozione si stabilisce una netta linea di demarcazione tra i controllori ed i controllati, tra potere legislativo e potere esecutivo. Il Parlamento può effettivamente esercitare un controllo sul governo avendo questi la sua fonte di legittimazione fuori dalle aule parlamentari.
La formula della Repubblica presidenziale ha pure, oltretutto, una sua carica di suggestione quasi “mitica” perché avvicinando direttamente i cittadini al potere si produce un meccanismo di immediata comprensione proponendosi quale rottura rispetto ad un sistema come l’attuale dove le degenerazioni partitocratiche sconfinano nel trasformismo e nella lacerazione del patto fiduciario con gli elettori.
Il presidenzialismo non va considerato, secondo alcuni suoi detrattori, come una sorta di contropotere rispetto agli altri apparati periferici dello Stato, ma quale elemento di equilibrio e di riconoscibilità del processo di formazione della decisione, controllata dal Parlamento, in un sistema di bilanciamento costituzionalmente rigorosamente previsto. Con la sua adozione si stabilisce una linea di demarcazione netta tra i controllori ed i controllati, tra potere legislativo e potere esecutivo. In più, come osservò Giorgio Rebuffa in uno splendido libretto che meriterebbe di essere ristampato, non a caso intitolato Elogio del presidenzialismo, “Il presidenzialismo potrà portare al nostro sistema politico le cose che non ha fin qui avuto. In primo luogo, la visibilità delle scelte e la ‘personalizzazione’ democratica: sapremo chi accusare e chi premiare. E ci porterà la distinzione tra chi governa e chi si oppone. L’esperienza parlamentare italiana è stata esattamente il contrario, caratterizzata dall’invisibilità delle decisioni e dall’irresponsabilità di fronte al corpo elettorale. Le ragioni di tutto ciò sono state molte: le regole della vita parlamentare e quelle della Costituzione, l’ideologizzazione e gli stili della politica. Ma la ragione di fondo è stata quella che in anni lontani si cominciò a chiamare ‘partitocrazia’: un sistema di oligarchie che ha piegato le istituzioni ai propri interessi. Per questo il ‘paradosso italiano’ si è configurato come una lunga continuità delle élites, a cui si sono accompagnate un’altrettanto lunga instabilità ed un’assenza di leadership. Per questo abbiamo bisogno del presidenzialismo. Perché è un sistema costituzionale capace di piegare i comportamenti politici, di rendere le istituzioni più forti dei partiti. Il sistema presidenziale non serve a dare ad una comunità un leader e una maggioranza. Ma serve a spezzare le oligarchie immobili, le culture politiche sclerotizzate, a dare alle icone le dimensioni e lo spazio. La Repubblica presidenziale è la strada per dare anche all’Italia la sua rivoluzione liberale”.
Una radicale riforma del sistema, per come la presuppone una riforma in senso presidenziale, non può non tener conto anche del problema della rappresentanza. Discutere, come talvolta si fa, della cosiddetta Camera delle regioni in un quadro di sgretolamento dello Stato è un non senso. E già quarant’anni fa se ne discuteva con ben altra cognizione di causa. Le convulsioni politiche di questi ultimi anni dovrebbero renderci consapevoli che un ordine civile, fondato sul consenso, può ottenersi soltanto attraverso riforme strutturali che siano il frutto di compromessi alti e non di abborracciate riforme imposte spesso da maggioranze risicate, come il Titolo Quinto della Costituzione.
Il presidenzialismo non è una sfida, ma una proposta per immaginare una Repubblica nuova, dei cittadini e non dei partiti. Jean Jaurés, socialista e democratico, sosteneva che la Repubblica non va soltanto difesa: va organizzata. Sono convinto che la migliore difesa della Repubblica e dei valori repubblicani stia nell’organizzazione delle sue strutture politico-istituzionali. Se la scelta presidenzialista resta sullo sfondo delle possibilità, declinata nel modo che si reputa più opportuno, credo sia una possibilità che non dovremmo lasciarci sfuggire. Sia pur tenendo presente che il contesto non è favorevole all’apertura di una stagione di riforme, ma che soltanto da un’Assemblea costituente, sottratta alla dialettica parlamentare ed allo scontro tra i poteri dello Stato, potrà nascere una Nuova Repubblica. La Repubblica degli italiani.