Neville Chamberlain si è dimesso. Winston Churchill ritorna al n.10 Downing Street. La profezia del vecchio leone si è avverata: i negoziatori di Monaco hanno scelto la via del disonore per mantenere la pace. Ed hanno avuto in cambio tanto il disonore quanto la guerra. Ma le popolazioni europee, calpestate dal tallone nazista, guardano al Regno Unito con fiducia e speranza, quando sentono Churchill pronunciare quelle parole fatidiche: combatteremo sulle nostre spiagge, combatteremo nelle nostre campagne, combatteremo nelle nostre città e sulle nostre montagne.
Ma non ci arrenderemo mai. E’ fin troppo facile – pensando alle vicende che sono seguite alle elezioni del 24 e 25 febbraio fino a quella del capo dello Stato – fare indossare a qualcuno degli attuali protagonisti la maschera di Chamberlain e quella di Churchill, anche se ci rendiamo conto di aver compiuto un volo pindarico tra un ‘’ieri’’ ormai lontano ed un ‘’oggi’’ trascorso da poche ore.
Sappiamo però che il Quirinale, con la rielezione a grande maggioranza di Giorgio Napolitano, non solo non è ancora stato espugnato dalla marea montante di un populismo intrinsecamente fascista, ma è saldamente nelle mani delle forze democratiche che rifiutano di arrendersi. In questi momenti quella masnada di disoccupati organizzati che un’efficiente Agenzia del lavoro denominata M5S ha sistemato in Parlamento, affermano che la Casta si è rinchiusa nel fortino e, asserragliata sugli spalti, ignora il messaggio del popolo.
Ma chi ha dato loro il diritto di parlare in nome di tutti, quando le forze che hanno votato per Napolitano hanno ottenuto un consenso di gran lunga superiore a quello, pur importante, conseguito dal movimento dei ‘’grillini’’?
Comunque, sappiano che adesso si è voltata pagina. Nessuno offrirà più l’altra guancia (e il sedere) alla terribile coppia Casaleggio-Grillo. Napolitano è sicuramente più forte di prima; al Pd sono rimasti soltanto gli occhi per piangere; il suo gruppo dirigente si è frantumato e ha fatto tutto da solo; ha messo in luce di non essere diviso solo dai personalismi e dalle diverse cordate, ma soprattutto dalle strategie più importanti per quanto riguarda la governabilità del Paese e la questione delle alleanze. Soprattutto, nessuno perdonerà mai al gruppo dirigente di questo partito (ora dimissionario in blocco) di aver sdoganato i “grillini” al punto da immaginare con loro una qualche forma di alleanza per il cambiamento.
Ma come è potuto accadere a un grande partito di essere afferrato, all’improvviso, da un “cupio dissolvi” che lo ha portato alla paralisi prima, alla disfatta poi, dimostrando al Paese non solo di non essere in grado di eleggere i propri candidati alla presidenza della Repubblica (pur avendo a disposizione la quasi totalità dei voti necessari), ma di distruggerne persino il prestigio ?
Eppure il Pd è l’ultimo partito sopravvissuto, che può contare su di una struttura diffusa su tutto il territorio nazionale. Come tale ha assorbito più di ogni altro le suggestioni malefiche che hanno messo sotto tiro la politica in questi ultimi anni. A parte la messa in scena della lotta ai privilegi – veri o presunti – della classe politica, il Pd è sempre permeabile a tutte le novità – lo ha fatto a suo tempo anche con la Lega – che possono portare consenso.
Così è indotto a scimmiottare metodi e comportamenti che non appartengono alla sua tradizione e che hanno finito per trasformare questo partito, a tutti i livelli, in una confederazione di potentati e di correnti, legati ad un leader piuttosto che ad un programma politico. Si veda l’esperienza delle primarie: piuttosto che una prassi democratica, le primarie sono diventate, insieme, un vezzo alla moda e un marchingegno che evita al gruppo dirigente di compiere quelle scelte che gli competono quando vi è un confronto elettorale. Chi cresce combattendo come avversari i suoi compagni di partito appartenenti ad un’altra cordata finisce prima o poi per badare soltanto agli interessi della sua parte e non del partito nel suo insieme.
La Dc e i socialisti furono dei maestri nelle pratiche di gruppi interni contrapposti (e non a caso i passaggi più aspri, in casa Dc, avvenivano proprio in occasione dell’elezione del Capo dello Stato, anche se gli scontri sono sempre stati sapientemente governati fino a trovare, alla fine, una soluzione che non veniva contestata da nessuno e che non lasciava sul campo un cumulo di macerie). E che dire del “nuovo che avanza” agitando come una clava l’età anagrafica? Quale credito può avere un capo gruppo ragazzino come Roberto Speranza che, entrato alla Camera, ha dovuto farsi spiegare persino dove fosse la toilette?
Ma il problema più serio – che poi è la vera questione inquietante probabilmente ormai scappata di mano ed irrecuperabile – è dato dal clima di odio irriducibile che fa da sottofondo al dibattito politico, ormai da anni. Un odio che non è solo tra le fazioni in campo, ma della base nei confronti dei vertici, dei cittadini verso le istituzioni. Quando Grillo parla di golpe – rivolgendosi ad un’elezione effettuata da un libero Parlamento che ha eletto un presidente della Repubblica con un voto a larghissima maggioranza – compie un atto non rivoluzionario ma eversivo. Gravi e di tanti sono le responsabilità di quanto sta accadendo da troppo tempo sotto i nostri occhi. I grandi quotidiani e gli show televisivi che hanno cavalcato spregiudicatamente l’antipolitica , un giorno, se sono onesti, dovranno riflettere sui disastri che hanno provocato.
Non è un caso che sia la Relazione dei Servizi ad avvertirci dei pericoli che corre il Paese quando scrive che “si prospetta il rischio di una intensificazione delle contestazioni nei confronti di esponenti del governo e personalità di rilievo istituzionale, nonché rappresentanti di partiti politici e sindacati considerati non sufficientemente impegnati nella difesa dei bisogni emergenti”. In ogni caso, la Repubblica ha ritrovato una guida. L’elezione di Napolitano ha consegnato alla difesa della democrazia un caposaldo ed ha messo in evidenza, nel M5S, gli avversari da battere; non da blandire. Oggi è iniziata la riscossa. Sappiano che non ci arrenderemo mai.