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Cosa pensava Calamandrei dell’antiparlamentarismo e dei professionisti della politica

“Altra causa del discredito del Parlamento è la propaganda di tipo squisitamente fascista che certi giornali e certi partiti continuano a fare anche oggi contro le istituzioni democratiche e più in generale contro ogni forma di libera attività politica: il qualunquismo, prima di diventare un partito che mostra riprodotte in se stesso e ingrandite le pecche e i travagli che quando sorse rimproverava agli altri partiti, non ebbe da principio altro programma che quello, essenzialmente negativo, della insofferenza e della cieca ostilità alla politica, ed ebbe qualche fortuna in certi ceti proprio perché, invece di affaticare il pubblico col forzarlo a pensare a difficili problemi d’ordine generale, lo chiamava allo spassoso tirassegno (tre palle un soldo), consistente nel ricoprire di fango e di contumelie personali gli uomini politici di tutti i partiti al potere. Così nel pubblico, sempre avido di scandali e sempre pronto a credere alla altrui disonestà, si va sempre più diffondendo la convinzione che il Parlamento sia una scelta di ciarlatani ed affaristi, che, colla scusa del bene del popolo, non hanno altro scopo che quello di arricchirsi alle sue spalle”.

Sono parole di Piero Calamandrei, da un breve saggio dal titolo “Patologia della corruzione parlamentare” che dà il titolo ad un libretto meritoriamente pubblicato dalle Edizioni di Storia e Letteratura. Scelta meritoria perché i due testi – con la utilissima  introduzione di Gianfranco Pasquino – consentono di riflettere sul parlamento, il parlamentarismo e l’antiparlamentarismo, la “professione” di parlamentare. Per scoprire innanzitutto che non si tratta di problemi nati nei nostri tempi, come non sono solo dei nostri tempi quei “qualunquisti” che mostrano “riprodotte” e “ingrandite” “le stesse pecche e gli stessi travagli” che rimproveravano agli altri.

Di Movimento 5 Stelle, rappresentanza, sistemi elettorali e vincolo di mandato scrive Pasquino nella sua introduzione. Quanto ai testi di Calamandrei, vanno letti e riletti per essere apprezzati perché non nascondono la complessità dei temi che affrontano e – lettura dopo lettura – attenuano in chi legge la vis polemica, l’indignazione, il tifo sterile, per lasciare il posto alla riflessione.

Probabilmente non è un caso che la collana che raccoglie i due saggi si chiami “Civitas” ed abbia come motto un stralcio da una frase latina che dice più o meno: le città sono i muri ma la civitas non è fatta dai sassi delle città ma dai suoi abitanti.

Calamandrei nel primo scritto elenca – citando anche una sua conversazione in treno – l’opinione generale che il Parlamento sia tutto fatto di “delinquenti e ladri”, spiega il discredito con vecchie opinioni (“la politica è una cosa sporca”) e con cause più recenti, come il modo “in cui i giornali danno i resoconti dei dibattiti in Costituente”; resoconti in cui “nessun cronista” si preoccupa di scrivere cose obiettive ed esatte, cosicché è inevitabile che il lettore pensi che i costituenti siano “una raccolta non solo di corrotti ma anche di deficienti”.

Ma non manca di elencare subito dopo gli elementi della corruzione parlamentare, fatta di raccomandazioni, illeciti vantaggi di carriera per i parlamentari, incarichi retribuiti, profitti parlamentari di professionisti. La proposta di stabilire l’incompatibiltà tra il mestiere di avvocato e quello di parlamentare “raccolse un solo voto favorevole: quello del proponente”, racconta l’avvocato Calamandrei. Solo che, a differenza di quel che farebbe oggi un qualsiasi opinionista di giornale, Calamandrei non ha “rimedi”, se non quelli della “educazione politica”, più utile della “repressione giuridica”.

Il secondo testo di Calamandrei è di qualche anno successivo. Si tratta di una lettera all’amico e politico socialista democratico Ugo Guido Mondolfo. Una lettera in Calamandrei cui ricorda (“senza nostalgia”) i suoi anni da parlamentare e in cui si interroga sul “professionismo parlamentare”, il tempo in cui fare il politico non era più privilegio riservato a chi viveva di rendita o a chi aveva alti ideali (“si cita ancora a titolo d’onore l’esempio di Oddino Morgari”, ferroviere e parlamentare socialista che dormiva in treno “non avendo di che pagarsi l’alloggio a Roma”), in cui si era raggiunta la “grande conquista” della indennità parlamentare, in cui i parlamentari erano diventati “professionisti della politica”. Questa professionalizzazione vuol dire burocratizzazione, scrive il giurista; e i parlamentari sono diventati non rappresentanti del popolo ma “impiegati del loro partito”. Calamandrei però scrive a Mondolfo che non c’è molto da fare: il fenomeno del professionismo politico è “inevitabile” e il sistema parlamentare “non può più fare a meno” della classe dei “professionisti della politica”, anche se spesso costoro non hanno studiato abbastanza perché addestrati “in una tecnica politica di carattere pratico e superficiale che forse non si può neanche chiamare cultura ma soltanto abilità”. Che fare? Inutile indignarsi. La domanda è se non sia necessario “qualche ritocco giuridico nel sistema”. E vien da pensare all’assetto dei partiti, alla loro democrazia interna, al rapporto con gli iscritti, all’articolo 49 della Costituzione, grande questione ancora parzialmente irrisolta. Ma ci vorrebbe un Calamandrei.

“Patologia della corruzione parlamentare”. Piero Calamandrei. Introduzione di Gianfranco Pasquino. Edizioni di Storia e Letteratura.


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