Il rito della Messa di buon mattino, le offerte “ai poveretti” lontane da occhi indiscreti, il rapporto intenso e costante con i Papi, il chiodo fisso del “trialogo” fra religioni.
La fede del senatore a vita Giulio Andreotti raccontata da chi per anni lo ha seguito e studiato, il giornalista Gianni Cardinale, vaticanista della rivista “30giorni” fondata dal sette volte Presidente del Consiglio, e oggi firma del quotidiano Avvenire.
Andreotti come viveva la cristianità?
Era un popolano romano, come amava definirsi. E lo era anche nel modo in cui viveva la sua fede, che gli era stata trasmessa dalla mamma ma soprattutto dalla zia, nata al tempo di Pio IX e nostalgica del potere temporale. Cosa che invece Andreotti non era, pur conservandone intatta la fede che manifestava in maniera discreta ma costante, come la partecipazione quotidiana alla Messa di primo mattino: il primo gesto di ogni giornata. Dove amava leggere una delle letture del giorno e, lontano da occhi indiscreti, dava la sua offerta a tutti i poveretti che gli si affacciavano quando usciva dalla Chiesa. Questa era la sua fede quotidiana, non ostentata: semplice ma vera, per quello che ho potuto sperimentare.
Il cardinale Tonini disse: “Andreotti ascoltava la Santa Sede e la Santa Sede ascoltava Andreotti”. Che tipo di dialogo ha avuto con i Papi?
Prima è diventato giornalista, poi ha iniziato a fare politica, entrandovi da cattolico. E portandosi dietro in quella nuova esperienza la sua fede. Per una serie di circostanze storiche ha avuto modo di allacciare una serie di rapporti con i Papi, a cominciare da Pio XII. Proprio vero che veniva ascoltato dal Vaticano, perché a sua volta ascoltava. Era una personalità che, nonostante la semplicità, aveva visione e conosceva il mondo. Ebbe una spiccata capacità di avvicinare anche esponenti lontani dalla fede cattolica: aveva ottimi rapporti con i dirigenti del Pci, con quelli israeliani e palestinesi, con russi e statunitensi. Era uno dei pochi politici italiani ben conosciuti in Cina e nella penisola arabica, e stimato da personaggi come Castro. Insomma, una risorsa preziosa per la Chiesa, ma soprattutto per lo Stato italiano.
Fu un anticipatore di quel dialogo interreligioso che si è rafforzato negli ultimi anni?
Aveva il pallino del cosiddetto “trialogo”, espressione con cui definiva in tempi lontanissimi e quando nessuno ne parlava il rapporto fra cristianesimo, ebraismo e islamismo. Ricordo che ne facemmo anche una copertina di “30giorni”, quando a Roma venne inaugurata la Moschea. Pur rimanendo un cattolico romano apostolico, aveva l’interesse a un dialogo umano con tutte le altre realtà religiose. Soprattutto quelle con cui aveva modo di interloquire, quindi l’ebraismo che a Roma ha radici antichissime e l’Islam, dove in occasione dei suoi frequenti viaggi era sempre riverito e rispettato dalle autorità locali.
Con Wojtyla la fede si mescolò alla contingenza politica di quel tempo?
Andreotti era presidente del Consiglio quando fu eletto Giovanni Paolo II. Negli anni ’80 andai in Polonia e ricordo che in molti lì, oltre al Papa polacco, lo stimavano. Per la fermezza ma anche per il dialogo che attuava nei confronti dei sovietici.
Con Ratzinger l’incontro “ufficiale” in Senato, quando era ancora cardinale…
In qualità di direttore di “30giorni” invitò Ratzinger ad una conferenza al Senato. Ho personalmente sperimentato che, spesso e volentieri, il cardinal Ratzinger offriva alla rivista pregiati contributi, anche inediti. Segno della stima che, colui che era al di fuori di quel cerchio classico di prelati in stretto rapporto con i politici, aveva di Andreotti.
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