La triangolazione Berlino-Mosca-Ankara si erge a metro di lettura per decifrare i risvolti energetici della crisi greca e, da qualche giorno, anche di quella cipriota. Con l’incognita rappresentata dalle pressioni pro unificazione cipriota avanzate da Washington ma che confliggono con il diritto internazionale. Dove, mai come in questo caso, contingenza politico-finanziaria e riverberi geopolitici specifici viaggiano sui medesimi binari dell’imprevedibilità, scomodi e dall’esito finale incerto. Ciò in virtù di memorandum e di default nei numeri già avvenuti, che non offrono certezze sull’evoluzione dei dossier in questo momento aperti sui tavoli di Bruxelles. Con l’accelerazione degli ultimi giorni da rinvenire in una spinta da parte di Barack Obama che ha incontrato il premier turco Erdogan lo scorso 16 maggio, esattamente un mese prima del suo omologo greco Samaras. Uno scenario che perseguirebbe, nelle intenzioni, il raggiungimento di un accordo per la riunificazione di Cipro, da far procedere con un riferimento primario alla disponibilità dei giacimenti sottomarini di gas.
Grecia e Cipro accomunate da debiti e gas. Inizialmente la voragine finanziaria ellenica fu la causa primaria dei possessori ciprioti di titoli greci. Una criticità che si manifestata poche settimane fa, con la chiusura per quindici giorni delle banche cipriote, con l’approvazione del memorandum con alla base l’haircut sui conti correnti e il successivo invio di cinque miliardi di dollari in un aereo cargo decollato da Francoforte. Un panorama a cui fa da sfondo la ricchezza sottomarina tanto in Grecia quanto a Cipro, dove politiche miopi non ne hanno consentito un’utilizzazione concreta negli anni passati.
La Grecia presenta interessanti giacimenti di gas, di oro e di argento nella zona settentrionale della penisola Calcidica, nell’Epiro e nell’Egeo. Ma fino ad oggi il dato è stato sottovalutato dai governi di Atene, fatta eccezione per una prima compagnia canadese che ha condotto proprio nella regione greca della Macedonia alcuni rilievi. Con stime incoraggianti, secondo cui in caso di estrazione a regime , il paese potrebbe diventare il primo produttore europeo. Diverso il discorso relativo al gas, su cui Atene ha provveduto a riallacciare i legami diplomatici con il governo di Ankara per uno sfruttamento comune delle acque dell’Egeo situate nella cosiddetta ZEE.
Cipro ha provveduto invece a formalizzare lo scorso ottobre un pre accordo con Tel Aviv sullo sfruttamento dei giacimenti sottomarini presenti nelle sue acque sudorientali. Ma sull’isola divisa dal 1974 incombono una serie di particolarità legate al diritto internazionale. In risposta a un tentativo di golpe ellenico, nel luglio del ’74 migliaia di militari turchi invasero Cipro e vi si stabilirono sul 37% della superficie con truppe di terra, provvedendo a dividere l’isola in due zone. Ma mentre lo stato cipriota situato a sud è membro a tutti gli effetti dell’Ue, quello settentrionale si è autoproclamato Repubblica turcocipriota del nord ed è riconosciuto solo da Ankara e non dalla comunità internazionale.
Di qui l’interrogativo: come potrebbe la Turchia rivendicare diritti di un luogo di cui ufficialmente non risulta possessore? A cui rispondere con i rilievi del diritto. Il diritto degli Stati a sfruttare le risorse minerali ed in generale il controllo esclusivo su tutte le risorse economiche del suolo sottomarino antistante alle proprie coste è regolato dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, nota anche come Convenzione di Montego Bay del 1982, dal nome della località giamaicana dove fu sottoscritta; è entrata in vigore nel 1994 ed è adottata da circa 200 paesi. Regola l’estensione della sovranità territoriale degli Stati anche sulle acque marine antistanti alle loro coste, definendo contenuti e limiti di tale sovranità. In virtù di tale Convenzione, la sovranità dello Stato si estende per un massimo di 12 miglia ad una zona di mare adiacente alla sua costa, il cd. mare territoriale, su cui lo Stato esercita le proprie prerogative in maniera molto simile a quanto accade sul suolo nazionale. La possibilità di sfruttamento in esclusiva di minerali, idrocarburi liquidi o gassosi, invece, si estende su tutta la propria piattaforme continentale, intesa come il naturale prolungamento della terra emersa sino a che essa si mantiene ad una profondità più o meno costante prima di sprofondare negli abissi; il concetto di piattaforma continentale ha finito per sovrapporsi a quello di zona di sfruttamento esclusivo che consiste nella porzione di mare adiacente alle coste dello Stato che si estende sino a 200 miglia marine dalla costa. In questa estensione lo Stato costiero è il solo titolare del diritto di sfruttare tutte le risorse biologiche e minerali del suolo e del sottosuolo.
Tale diritto, sostiene Stelio Campanale docente di diritto degli scambi internazionali all’Università LUM di Bari, è “la conseguenza automatica della sovranità territoriale che è la prerogativa di ogni Stato, proprio in quanto tale. Per la comunità internazionale, dunque, solo ad uno Stato è riconosciuto il diritto di sfruttare, ad esclusione di qualsiasi altro paese, le risorse presenti nel sottosuolo marino che si estende per 200 miglia di fronte alle proprie coste. L’ordinamento internazionale non consente ad enclavi, gruppi etnici o raggruppamenti di persone o territori comunque definitisi, di accampare di fronte alla comunità internazionale eguali diritti o di muovere analoghe pretese a quelli di Stati sovrani ed indipendenti”. E l’autoproclamatasi “Repubblica Turca di Cipro del Nord”, a nome della quale il governo turco sostiene l’esistenza di una pretesa su tali risorse è completamente destituita di fondamento, in virtù dell’inesistenza di tale Stato il cui riconoscimento è stato negato dall’intera comunità mondiale, con la sola eccezione dello Turchia.
Per il diritto internazionale, infatti, uno Stato può definirsi tale solo allorquando sia dotato di un proprio esecutivo che eserciti su di un determinato territorio effettive funzioni di governo in maniera autonoma ed indipendente da qualsiasi altro ente o nazione. Il fatto che l’esistenza di un presunto diritto nazionale degli abitanti di etnia turca dell’isola di Cipro a sfruttare le risorse del mare intorno ad essa sia accampata dal Ministro degli Esteri di un altro Stato è la prova evidente che tale enclave non costituisce uno Stato, bensì una comunità etero guidata e priva di un proprio governo indipendente.
Una criticità, quella turcocipriota, che si interseca, gioco forza, con i due gasdotti di matrice russa già in atto. E con il rischio concreto che la fretta imposta dal dover risolvere la partita finanziaria cipriota e anche greca possa non condurre agli effetti migliori, che invece sarebbero potuti essere raggiunti con più ragionevolezza e programmazione. Anche per non creare tensione fra Berlino, Mosca e Ankara. La Germania chiede garanzie, specifiche e reali, oltre al memorandum in sè; la Russia avrebbe concesso un altro prestito o rinegoziato il vecchio da 2,5 mld con Cipro ma sotto la precisa condizione che si fossero aperti anche i negoziati per i giacimenti; la Turchia, prima ha ufficialmente intimato Nicosia a non trattare sul gas mostrando risentimento per il precedente accordo concluso con Israele, e ora apre alla possibilità della riunificazione cipriota proprio per via del gas. Mentre gli Stati Uniti, come trapelato dalla recente visita di Obama in Israele, non vedrebbero di buon occhio un conflitto sull’asse Tel Aviv-Ankara sul caso cipriota, preferendo una soluzione che armonizzi il più possibile i vari interpreti. A cui hanno fatto seguito negli ultimi giorni altri contatti telefonici tra il governo e la delegazione cipriota, con in testa il ministro degli Esteri cipriota Ioannis Kasoulides e quello dell’Energia, del commercio, dell’industria e del turismo, George Lakkotrypis, giunto in Israele.
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