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La domanda sul lavoro che imbarazza Letta

La saggezza popolare insegna che è sempre meglio avere un uovo oggi che una gallina domani. Questa considerazione potrebbe fare da commento (almeno per quello che si conosce in attesa della messa a punto del testo) anche al decreto sull’occupazione e sulla lotta alla povertà, varato ieri dal Consiglio dei ministri, in vista del vertice europeo e in attesa (ecco la gallina) delle decisioni in materia che saranno assunte in quella sede.

Come volle fare esattamente un anno fa Mario Monti, forzando i tempi per presentarsi al Consiglio dei capi di Stato e di governo della Ue con il testo della legge Fornero approvato in via definitiva (anche a costo di impegnarsi formalmente con il Parlamento ad apportarvi subito delle modifiche), così anche Letta jr. ha voluto stringere i tempi per dimostrare ai partner che l’Italia non si limita ad insistere affinché si dia priorità alle politiche di sostegno dell’occupabilità dei giovani, ma agisce anche in proprio. Il fatto è che qualunque collega potrebbe rivolgere al nostro premier una domanda in grado di metterlo in imbarazzo: “Mi vuol spiegare, presidente, per quale motivo vi accingete in Italia ad impiegare 8-10 miliardi a copertura dei provvedimenti annunciati sull’Imu e l’Iva, mentre in tema di lavoro – che vi sta tanto a cuore – di miliardi ne avete trovati, a fatica, 1,5?”.

Nella logica, allora, dell’uovo oggi prendiamo atto delle misure decise ieri, anche perché, se vogliamo essere “politicamente corretti”, questo governo va difeso per un motivo molto banale: che non esiste la possibilità di uno migliore, mentre è forte la probabilità di soluzioni molto peggiori. Facciamo pure finta che si tratti soltanto di un primo tempo, in attesa della svolta di Bruxelles. Ma, ad essere onesti, sotto il “vestito” degli incentivi economici alle assunzioni rimane ben poco a correzione delle norme della legge Fornero, accusate di aver irrigidito l’accesso al mercato del lavoro. Persino la regola di significativo interesse, riguardante una maggiore flessibilità delle assunzioni in vista dell’Expo 2015, è stata stralciata, immaginiamo su richiesta sindacale, benché fosse riconosciuto, per la sua adozione, un ruolo costitutivo alle parti sociali.

In sostanza, l’unica correzione di un qualche significato della legge Fornero riguarda l’aver ripristinato i previgenti giorni (10 e 20) intercorrenti tra un contratto a termine e quello successivo: un problema che era già stato praticamente risolto in sede di correzione della legge n.92 del 2012, dove la gestione di questi ‘’intermezzi’’ era stata affidata alla contrattazione collettiva. Anche la possibile ed utile novità di cui si parlava – prolungare oltre i 12 mesi, ora previsti, la causalità nei contratti a termine – è stata affidata alla disponibilità delle parti sociali.

In sostanza, a nostro avviso, gli incentivi economici previsti non compenseranno i permanenti disincentivi normativi, le rimozioni o correzioni dei quali non avrebbero comportato particolari oneri e, certamente, sarebbero risultati più efficaci nel creare nuovi posti di lavoro. Gli incentivi economici (che, per fortuna, non sono limitati soltanto ai giovani e alle regioni meridionali: l’utilizzo di parte dell’Aspi come dote è interessante) presentano strutturalmente degli inconvenienti. Anche senza aderire in toto alle tesi di Tito Boeri (La Repubblica di oggi) il quale sostiene – prendendo spunto da ricerche condotte su esperienze passate – che gli incentivi finiscono per premiare assunzioni che, in buona parte, ci sarebbero state comunque, è pur vero che questi interventi “drogano”, per il tempo in cui operano, il mercato del lavoro e, quando vengono a mancare, determinano una vera e propria moria di una quota significativa dei posti “creati”.

Ripetiamo che sulla revisione della riforma Fornero si è fatto molto meno di quanto sarebbe stato utile. Poi, le poche modifiche adottate sono condizionate dalle intese tra le parti sociali, le quali, come nel caso delle deroghe per l’Expo, hanno avuto paura persino di se stesse, imponendone lo stralcio. Sorge, allora, spontanea una domanda. L’attuale governo è a conoscenza del fatto che, nell’ordinamento vigente, in forza di quanto dispone l’articolo 8 del decreto legge n.138 del 2011, le parti sociali hanno ampie possibilità di derogare, tramite la contrattazione collettiva decentrata e, a certe condizioni con effetto erga omnes, alle norme di legge e dei contratti di lavoro nazionali? Che senso ha legiferare nuovamente a favore di intese modificative, fingendo che quella norma non esista soltanto perché essa è sottoposta alla “macumba” della Cgil e della sinistra, essendo stata introdotta dall’allora ministro Maurizio Sacconi?



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