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Come rendere “Destinazione Italia” più di uno slogan accattivante

Ci sono pochi indicatori, al pari degli investimenti diretti esteri, in grado di misurare il grado di competitività di un Paese. In un mondo globalizzato anche i capitali non finanziari sono liberi di muoversi verso quei posti in grado di assicurare nel medio-lungo periodo la migliore remunerazione. Chi ha il potere di indirizzarli può fare qualche eccezione nel caso di mercati con una forte domanda interna, al fine di minimizzare i costi di trasporto ed eventualmente evitare possibili barriere commerciali. Ma con una catena del valore sempre più estesa globalmente, sistemi logistici ormai molto sofisticati, un’area di libero scambio di livello continentale e un mercato interno da anni in declino, per un Paese come l’Italia diventa sempre più indispensabile fare qualcosa di più che in passato per attrarre investimenti esteri.

Ecco perché “Destinazione Italia”, il piano del Governo per aumentare la capacità del sistema Paese di intercettare una quota maggiore del flusso di 1,35 mila miliardi di dollari di investimenti esteri, rispetto al misero 0,7% attuale (dati 2012), assume oggi un’importanza quantomai strategica. Purché non rimanga semplicemente un nome sexy ma sia riempito di contenuti, con la giusta dose di coraggio.

Innanzitutto, riconoscendo come gran parte dei problemi che affliggono le imprese che vogliono investire in Italia siano sistemici (dall’elevata imposizione fiscale alla giustizia civile lenta, dall’istruzione che non funziona a una pubblica amministrazione bizantina e inefficiente). Ne sono una testimonianza le molte proposte del Comitato Investitori Esteri di Confindustria, presentate all’inizio di luglio di fronte a un parterre istituzionale di tutto rispetto. Accanto a misure specifiche, molte di quelle invocate dalle multinazionali presenti in Italia rappresentano un ambizioso programma di Governo che potrebbe cambiare in meglio la vita di tutte le imprese e in ultimo dell’intera collettività. Questo non vuol dire che siano inutili le politiche dirette alla promozione degli investimenti esteri. Ma semmai che occorra il più possibile calarle nel contesto generale, utilizzando anche questo grimaldello per scardinare i sempre più evidenti limiti del sistema, che valgono sia per le imprese straniere che devono essere convinte ad investire in Italia che per quelle italiane alle quali offrire l’opportunità di reggere la competizione sempre più spietata. In questo senso ci piacerebbe pensare che il nome “Destinazione Italia” non sia stato scelto solo per evocare le coordinate geografiche di un maggiore afflusso di investimenti esteri ma anche metaforicamente una nuova rotta per l’intero sistema Paese.

Tenendo innazitutto presente che per attrarre capitali esteri occorre offrire un percorso che sia stabile nel tempo. E’ questo il limite principale di alcune misure che anziché le imprese puntano ad attrarre in una logica speculare le persone, come la Legge Controesodo per il rientro dei cervelli, che assicura benefici fiscali per alcuni anni che, una volta esauriti, rischiano di far ripiombare il destinatario nelle inefficienze del sistema dal quale era fuggito. In queste condizioni, è normale che i pochi beneficiari siano nella quasi totalità persone che sarebbero tornate comunque o, al massimo, individui destinati ad emigrare nuovamente, una volta terminate le agevolazioni fiscali. Ecco dunque che i (pochi) soldi stanziati finiscono per essere spesi inutilmente o quasi. Consigliamo dunque una strada diversa da quella degli incentivi a tempo e più indirizzata a dare certezze laddove attualmente l’alea domina solitamente sovrana.

Inoltre, è vero che attraiamo sempre meno investimenti dall’estero e invertire la china discendente debba essere una priorità. Occorre però leggere con attenzione i dati:

1)      una parte rilevante del calo degli investimenti esteri registrato nel 2012 rispetto al 2011 (circa 13 miliardi su 25) è spiegabile con le minori operazioni di acquisizione di imprese italiane (in particolare, Bulgari e Parmalat). Se si vanno a guardare i progetti greenfield (cioè gli investimenti ex novo nell’industria e nei servizi), la diminuzione è molto meno pronunciata (da 5,7 miliardi di dollari del 2011 a 4 miliardi di dollari nel 2012)

2)      è dunque consigliabile guardare i flussi in una prospettiva temporale più lunga rispetto al singolo anno e concentrarsi soprattutto sull’attrazione di progetti greenfield, che sono quelli che portano valore aggiunto. Anche se spesso e volentieri questi ultimi sono effettuati da imprese che già operano in Italia e decidono di espandere le proprie attività, magari perché hanno le spalle più ampie rispetto alla proprietà italiana che hanno rimpiazzato nel tempo. Dunque, da un lato non si possono invocare più investimenti esteri e dall’altra gridare all’invasione dello straniero se nostri marchi finiscono in mani altrui

3)      non ci si deve concentrare solo sui flussi ma anche sullo stock, cioè sul valore cumulato degli investimenti esteri effettuati nel passato (pari in Italia a 357 miliardi di dollari nel 2012). Come dimostrano gli stessi dati sui flussi (si guardi al valore negativo del 2008), si può anche disinvestire, oltre che investire. E anzi occorre riconoscere che in alcuni settori (ad esempio, l’industria farmaceutica), lo scenario più probabile è oggi il primo, non solo per italiche colpe ma anche per la competizione sempre più formidabile dei Paesi emergenti (destino che ci accomuna al resto d’Europa). In questi casi, è prioritario mettere in atto strategie per mantenere lo stock attuale più che immaginare romanticamente l’arrivo di nuovi capitali. Tenendo presente che le imprese estere operanti oggi in Italia occupano tra occupati diretti e indotto circa 3 milioni di addetti e coprono un quarto del budget complessivo privato in ricerca e sviluppo. Perdere, anche in parte, questo importante asset sarebbe il colpo di grazia per il sistema Paese.

Per assicurare il successo del piano “Destinazione Italia” serve infine una governance snella ma anche molto forte in termini di capacità di influenza sui decisori e di perseguimento di una mission quanto mai ambiziosa. Crediamo che solo un’Agenzia posta alle dirette dipendenze del Presidente del Consiglio (sul modello dell’ISPAT turca) potrebbe avere chance effettive di assolvere questa funzione. Con una cesura netta rispetto alle esperienze fallimentari maturate nel passato e nel presente, grazie anche a uno staff proveniente in gran parte dal settore privato, meglio se con esperienze di lavoro all’estero e multidisciplinare (oltre che multilingue, tanto per vendicare la perfida frase di Guido Rossi sul Palazzo Chigi di era dalemiana). E con un necessario raccordo con gli altri livelli dell’amministrazione, in particolare le Regioni.

Per evitare di disperdere energie e di assumere inutilmente una dimensione elefantiaca, perdendo la snellezza necessaria, l’Agenzia dovrebbe concentrarsi solo su taglie di investimenti che superino una soglia minima dimensionale (magari variabile a seconda del settore).

Infine, forse il suggerimento che richiede la maggiore dose di coraggio ma che rappresenterebbe una vera e propria rivoluzione per il nostro Paese: perché non legare lo stipendio dei principali dirigenti dell’Agenzia, a cominciare dal suo direttore, all’andamento del flusso degli investimenti verso l’Italia (o a un sottoinsieme più indicativo e meno volatile, disancorandolo il più possibile da circostanze casuali, come gli investimenti al netto delle operazioni di fusione e acquisizione)?

Solo alle condizioni enunciate (e con l’aggiunta di diversi altri ingredienti), “Destinazione Italia” potrà essere qualcosa di più di uno slogan accattivante.



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