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Caso Kazakhstan, l’Eni infastidisce i Paesi anglosassoni

Il caso Kazakhstan ha il suo epicentro in Italia, ma sin dalle prime battute è stata chiara la sua dimensione internazionale. Interessi geopolitici, economici e il ruolo dell’intelligence sono ingredienti essenziali per comprendere il clamore creatosi attorno all’espulsione dal nostro Paese di moglie e figlia del controverso dissidente kazako Mukhtar Ablyazov. L’Italia – aspetto non affatto secondario nella vicenda – è uno dei partner economici privilegiati della repubblica kazaka, dove Eni partecipa con un ruolo di primo piano al consorzio di aziende che sfrutterà uno dei più grandi giacimenti di idrocarburi al mondo, Kashagan.
Aspetto che, secondo Germano Dottori, docente di Studi strategici alla Luiss e curatore del rapporto “Nomos e Kaos” di Nomisma, infastidisce diversi nostri alleati-competitori. In una conversazione con Formiche.net l’esperto di geopolitica spiega passato e presente della politica energetica italiana e le sue ripercussioni sul piano delle relazioni estere.

Professore, come mai tanto clamore internazionale attorno al caso kazako?
Io penso che tutta la nostra politica di penetrazione dello spazio ex sovietico abbia profondamente infastidito diversi nostri alleati-competitori. Era successo già durante la Guerra Fredda, con riferimento però al Nord Africa ed al Medio Oriente. Ed anche quella volta, fu l’Eni ad esser la pietra dello scandalo, per il solo fatto di onorare il proprio mandato istituzionale, che era quello di contribuire alla sicurezza energetica del nostro Paese. Allora però vincemmo noi, anche perché agli americani conveniva la nostra crescita nei confronti di Francia e Gran Bretagna.

Come si ottenne un risultato così rilevante?
Lamberto Dini svolse un ruolo cruciale nell’approfondimento delle relazioni bilaterali tra Italia e Kazakhstan, tanto da Presidente del Consiglio, perché fu sotto il suo governo, nel 1995, che venne istituito il Gruppo di Lavoro italo-kazako per le questioni economiche, gli scambi e la cooperazione economica ed industriale, quanto successivamente, da Ministro degli Esteri. Fu sotto la sua guida, infatti, che la Farnesina riuscì nel 1997 a far dell’Eni l’attore estero cruciale nello sfruttamento delle risorse energetiche del Caspio settentrionale. Quando nel 2000 venne scoperto il giacimento petrolifero gigante di Kashagan, la nostra compagnia si trovò in posizione di vantaggio. La cosa dispiacque molto alle concorrenti anglosassoni, che vennero colte di sorpresa dal colpo italiano, forse perché eccessivamente focalizzate sulla questione del Karachaganak. Oggi, peraltro, l’Eni gestisce Kashagan nell’ambito di un ampio consorzio, al quale partecipa con il 16,8% del capitale, in posizione paritaria rispetto ad Exxon, Shell e Total. Gli interessi in gioco da parte italiana sono comunque ancora notevoli.

Questo può spiegare la celerità con la quale si è proceduto all’espulsione della signora Shalabayeva?
Spiega, unitamente alla nostra debolezza politico-istituzionale, la forte influenza che il Kazakhstan è riuscito ad esercitare a Roma nella circostanza dell’espulsione della moglie e della figlia del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov. La circostanza non dovrebbe ormai stupirci più di tanto, alla luce dei precedenti casi di Öcalan e dei due marò bloccati in India. Lo sviluppo delle relazioni economiche bilaterali con i Paesi emergenti, in sé un fatto indubbiamente positivo, accresce le nostre vulnerabilità nei confronti degli Stati che vantino una maggior coesione sistemica nel far valere i loro interessi. Dobbiamo provvedere a rafforzarci sul piano interno.

Mentre oggi in che quadro si muove l’Italia?
Oggi il quadro è diverso. Ritengo che quella stagione sia ormai alle spalle. Archiviata in seguito alla caduta del governo Berlusconi, che ha ridotto notevolmente i margini di autonomia della nostra politica estera, anche per le modalità in un certo senso “esemplari” del suo rovesciamento. Se in precedenza, anche sotto Romano Prodi, la nostra politica era quella di proporci nelle vesti di avvocato in Occidente degli interessi della Russia, oggi possiamo soltanto essere i curatori degli interessi occidentali nella Federazione Russa: i nostri diplomatici lo ripetono spesso. È una cosa molto differente, che rivela il forte restringimento delle nostre possibilità operative, oltre a celare il probabile tentativo altrui di sfruttare a proprio vantaggio i nostri buoni uffici.

L’amministratore delegato di Eni, Paolo Scaroni, crede che la politica europea dovrebbe guardare a Russia e Africa e svincolarsi dagli Usa. Ci sarà davvero un cambio del baricentro geopolitico dell’Italia?
Non credo che tutto questo baccano abbia molto a che vedere con queste grandi dinamiche geopolitiche, rispetto alle quali neanche Paolo Scaroni potrà opporsi più di tanto. Temo invece che la verità sia più triviale: siamo in presenza dell’ennesimo tentativo di alterare gli equilibri politici interni utilizzando un infortunio della nostra politica estera, quantunque maturato dentro le mura del Viminale. L’obiettivo, come nel caso degli F-35, non è quello di protestare per la mancata difesa dei diritti umani di due persone ospiti del nostro Paese, ma piuttosto quello di allentare la coesione interna del Pd ed allontanarne una parte cospicua dalla lealtà all’attuale governo di larghe intese.


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