Gli anni ’70 e il terrorismo rosso e nero di quel periodo sono un ricordo lontano ma anche un monito a non sottovalutare, soprattutto a sinistra, il peso della violenza politica. Oggi, a svegliare dalla consueta distrazione sulle beghe interne di partito è stata necessaria una notte di violenza alla stato puro al cantiere Tav di Chiomonte. La vera e propria guerriglia in corso in Val di Susa da mesi sta mettendo a dura prova la resistenza delle forze dell’ordine impegnate massicciamente a proteggere il normale (si fa per dire) procedere dei lavori per collegare l’alta velocità fra Lione e Torino. Quella che viene dipinta come una pacifica protesta della popolazione locale che si oppone all’infrastruttura è, nella realtà, un conglomerato di anarchici insurrezionalisti, antagonisti di sinistra, black bloc, movimenti radicali (non nel senso di Pannella) fra i più vari e disparati. La sigla No Tav racchiude un po’ tutte queste frange, compresi i locali. La battaglia – dal punto di vista dello Stato – è per far rispettare la legge ma non può limitarsi alla doverosa repressione degli atti criminali, violenti o meno che siano. Val di Susa è solo la punta di un iceberg che è molto più grande e pericoloso di quanto non sembra.
Il sindacato di polizia non ha tutti i torti quando parla di questo luogo come palestra per la violenza in Europa. Va andandosi a saldare un mix di persone e motivazioni che punta a creare consenso nell’antagonismo, politico o violento che sia. Se prima il collante ideologico era il comunismo, adesso lo è il benecomunismo. Si tratta di una teoria, come quella di Marx d’altronde, che ha il suo fascino ed anche spunti che meriterebbero di non essere trascurati. Il punto però è che la rivendicazione di una nuova stagione di nuovi diritti (si veda Rodotà) diventa l’alibi per la lotta politica e per chi non ha mai smesso di pensare alla via rivoluzionaria per la presa del potere. Il risultato è, e potrebbe essere sempre più in futuro, il ritorno ad un tentativo di eversione. Lo Stato quindi fa bene a rispondere con il polso fermo ma, soprattutto dal punto di vista delle forze politiche, non ci si può permettere di scaricare tutte le responsabilità sulla polizia. È ineludibile investire sulla cultura, su una nuova educazione civica che promuova la tutela (diffusa) dell’interesse nazionale e della sicurezza nazionale.
No Tav è “parente” dei No Muos, dei No Triv, dei No Ilva, dei comitati per l’acqua pubblica e se l’infiltrazione dei professionisti della violenza è capillare e non casuale, è vero altresì che tutte queste sigle sono animate da tante persone che sono legittimamente convinte, in buonissima fede, di essere dalla parte giusta della barricata. Il monopolio delle idee ovviamente è tutto tranne che democrazia e pertanto non può esservi prevaricazione né da una parte (chi protesta) né dall’altra (chi vuol fare). La risposta più ferma da parte dello Stato e della politica ha bisogno di una integrazione: il consenso. Se non si spiega ai cittadini che tutte le campagne di comunicazione (raffinatissime e quantitativamente rilevanti) fatte da chi si oppone all’alta velocità o al Muos o all’Ilva sono frutto di mistificazione, sarà più difficile isolare i violenti dalle persone che hanno il pieno diritto a manifestare, dentro le regole, il proprio dissenso. Le imprese e le infrastrutture non possono continuare ad essere considerate come ‘il’ male della società, dell’ambiente, della salute e della convivenza civile. In una fase di crisi come quella che viviamo tutto quello che mina lo sviluppo economico ha un effetto destabilizzante moltiplicato all’ennesima potenza. Scandalizzarsi e reagire ai fattacci della Val di Susa è importante e lo è per tutti. In gioco c’è la sicurezza del nostro Paese. In palio vi sono gli interessi nazionali e il primo di questi in assoluto: la tenuta democratica della nostra Repubblica. Una nuova stagione di violenza (verbale e fisica, sui social network e nei cantieri) sarebbe una sciagura che va assolutamente scongiurata. Con pugno di ferro e cultura di velluto.