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Né con Berlusconi né con Renzi. La rotta (popolare) dell’Udc

“Un traghetto utile e un lievito prezioso per dare vita nella società alla sezione italiana del Partito popolare europeo, così come concepito dai padri fondatori dell’Europa dei popoli e dell’economia sociale di mercato. Forza maggioritaria e riformatrice alternativa alla sinistra e protagonista di un bipolarismo sano e maturo”. È la prospettiva in cui l’Unione di centro, all’indomani della sconfitta di febbraio e del fallimento del tentativo centrista sperimentato prima con il “Partito della nazione” e poi con Scelta civica, vuole rilanciarsi con l’assemblea programmatica nazionale. Lo fa rivendicando “il radicamento nel territorio e la sua rappresentanza nel promuovere i candidati alle cariche pubbliche, e il superamento della leadership personalizzata che connota il populismo di Silvio Berlusconi e lo sfascismo del M5S”.

Le critiche a Berlusconi e alla Lega

A prefigurare il percorso che nei prossimi mesi guiderà le iniziative dell’Udc è Pier Ferdinando Casini, il quale ha posto e una premessa imprescindibile: “Per non disperderci abbiamo il dovere di elaborare il lutto dell’esito elettorale di cui porto in prima persona la responsabilità, quando ho ritenuto che contare sul maggior numero di assessori potesse incidere più della presenza di persone libere nel partito”. Convinto che “i cittadini stanno prendendo coscienza dell’errore compiuto privilegiando la scorciatoia illusoria del voto di protesta, degli insulti e della liquidazione giustizialista del ceto politico tradizionale”, il leader centrista rivendica al gruppo dirigente “il merito di aver denunciato con lungimiranza la deriva populista del Cavaliere, vero responsabile del cappio al collo imposto al nostro paese dagli accordi con l’Ue, e il fallimento del bipolarismo evidenziato dalle esperienze dei governi Monti e Letta, così come la mancata abrogazione delle province e il federalismo sgangherato di marca leghista”.

La rotta del popolarismo e le critiche a Renzi

L’ambizione non è condannarsi alla posizione minoritaria di chi propone le ricette giuste e impopolari come faceva il Pri di Ugo La Malfa, ma puntare su una prospettiva più alta e vasta dell’esperienza dell’Udc e di Scelta civica. E l’orizzonte è il popolarismo europeo, “che non equivale all’ingresso nel Pdl ma implica la costruzione di un soggetto mancante fino a oggi per l’attitudine e l’indirizzo populista del centro-destra. Una formazione capace di riaffermare il primato della buona politica contro lo strapotere della burocrazia che produce i guai kazhaki”. Resterà invece deluso, rimarca Casini, “chi in Scelta civica è più interessato ai giochi di prestigio di un Renzi mosso dall’ansia di vincere piuttosto che dalla volontà di cambiare la sinistra”. Il tragitto indicato dall’ex presidente della Camera incontrerà avversari insidiosi, che per Lorenzo Cesa non sono rappresentati “dall’opposizione invisibile delle Cinque Stelle o da quella barbara del Carroccio, bensì dai fautori del bipolarismo muscolare o cannibale presenti nella maggioranza: i ‘falchi-avvoltoi’ del centro-destra e Matteo Renzi, prodotto di un Pd emblema dell’ubiquità politica”. Sconfitti gli ostacoli più pericolosi, si apriranno scenari promettenti per la Costituente popolare “alternativa ai socialisti, ai conservatori, ai liberali, al populismo che per vent’anni ha imprigionato il paese nello scontro tra fazioni contrapposte”. L’alternativa, osserva il segretario dell’Udc, è “cancellare l’ultima voce figlia della cultura democratico-cristiana che ha fatto rinascere e progredire l’Italia”.

Una traversata nel deserto con antichi compagni di strada 

Ma per dare corpo a una nuova grande soggettività nel voto europeo del 2014 è essenziale conservare l’Unione di centro? O è preferibile scioglierla per farne rinascere le ragioni in nuove forme? È questo l’interrogativo al quale hanno tentato di rispondere gli esponenti di spicco del partito figlio della Democrazia cristiana. A giudizio di Giuseppe De Mita la cultura politica di centro, “rimasta prigioniera della sua profezia sulla crisi del bipolarismo perché incapace di proporre un’alternativa, ha il dovere di misurarsi con le forme emotive di rifiuto della politica, con la risposta nuovista di Renzi e con l’appello di Berlusconi che fa leva sulla paura del nuovo”. Ma per “riempire il vuoto che verrà lasciato dal tramonto del Cavaliere e rivolgerci a un elettorato non socialdemocratico”, è necessario per il parlamentare centrista rifiutare le ipotesi di governo carismatico fondate sull’“uomo solo al comando” ed essere consapevoli che “l’Udc non è indispensabile, al pari delle forze impegnate nello stesso percorso”.

Persuaso del suo ruolo nevralgico “in una stagione caratterizzata da un governo politico di solidarietà nazionale che ha confinato all’opposizione la destra populista e la sinistra radicale in compagnia della versione 2.0 dell’Uomo qualunque di Guglielmo Giannini” è Giampiero D’Alia. Il quale chiama il partito a “diventare pioniere di una rinnovata democrazia dell’alternanza fondata sul trasferimento a livello nazionale del meccanismo di voto in vigore nei comuni più grandi – elezione popolare del capo del governo a doppio turno contestuale alla scelta dei parlamentari su base proporzionale con preferenze e premio di maggioranza per l’alleanza collegata al candidato premier vincente – accompagnato da una disciplina giuridica dei partiti politici e dal superamento del finanziamento pubblico, trasformatosi in sostegno statale a patronati per clientele e faccendieri: antitesi di formazioni autentiche, forti di un’identità precisa, di respiro europeo”. Un progetto alternativo, per il ministro della pubblica amministrazione, al modello di leaderismo carismatico e plebiscitario che verrebbe imposto con una riforma semi-presidenziale.

Tesi recuperate e sviluppate da Ferdinando Adornato, che invita a “giocare la partita più importante nel campo moderato, andando oltre Scelta civica e oltre l’Udc, indicando a Berlusconi la meta del Partito popolare – non populista – europeo”. A chi nella platea e tra gli intervenuti invoca a gran voce le dimissioni dell’intero gruppo dirigente “ridotto a pura oligarchia”, l’ex parlamentare dei Progressisti e di Forza Italia risponde che “per rinnovare noi stessi non bisogna ricercare il capro espiatorio. Soprattutto pensando che fin dal 2008 in totale solitudine l’Udc denunciò il re nudo delle due armate bipolari tendenti al bipartitismo”. Sulla stessa lunghezza d’onda Roberto Occhiuto, che ritiene il partito e i suoi leader tuttora indispensabili “per attuare il percorso verso la casa dei moderati e proporre una visione dell’Europa non fondata soltanto sull’austerità tanto cara a Mario Monti”. Argomentazioni respinte da Giuseppe Gargani secondo cui ormai l’Udc ha esaurito la funzione incarnata al tempo dell’alleanza con Forza Italia, “quando rappresentava con orgoglio il protagonismo politico dei cattolici popolari”.



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