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Datagate e cyberwar, la verità oltre il clamore mediatico

Come spesso accade, le notizie che hanno un ampio e profondo impatto sull’opinione pubblica sono frequentemente seguite da numerosi articoli, approfondimenti ed elaborazioni non sempre aderenti ai fatti e alla loro logica. La ricerca di uno “scoop”, peraltro, è un lavoro complesso e in caso di notizie frammentarie e decontestualizzate, magari perché provenienti da precedente segregazione da parte di uno Stato, il compito del giornalista o dello studioso è indiscutibilmente più arduo.

Le vicende legate ad Edward Snowden e ai documenti da lui sottratti e pubblicati sullo spionaggio elettronico da parte della National Security Agency (Nsa) americana sono un esempio lampante di questa “corsa allo scoop”.

Appare opportuno, allora, provare a sfatare alcuni dei “miti” circolati con maggiore insistenza in oltre quaranta giorni di articoli, commenti, approfondimenti e “scoop” su questa vicenda, cercando di ricondurre i ragionamenti alla logica, alla sequenza degli avvenimenti e, soprattutto, a quanto effettivamente scritto all’interno dei documenti sottratti da Edward Snowden e pubblicati in Rete.

Snowden è un agente “doppiogiochista” della Cina o di un altro Paese straniero vicino a questo governo.
L’inizio della vicenda di quello che i media di tutto il mondo avrebbero presto denominato “Datagate” è il 06 giugno 2013. Questa data, certamente non casuale, si colloca per la precisione a poche ore dall’inizio degli incontri bilaterali tra Barack Obama e il presidente cinese Xi Jinping. Un incontro certamente tanto importante quanto delicato, tanto per gli interlocutori (da un lato l’America, indiscussa super potenza globale, dall’altro la Cina, potenza regionale asiatica attualmente in crescita), quanto per i temi oggetto dell’incontro, dalla situazione climatica al controllo delle attività della Corea del nord.

Ma anche un colloquio fondamentale per Obama per ottenere delle “risposte” da Xi Jinping sulle asserite continue attività di spionaggio elettronico svolte dalla Cina nei confronti del governo e delle società americane. Le uniche che di fatto, proprio in conseguenza delle rivelazione di Snowden, Obama non è riuscito ad ottenere.

Per questo motivo, il tempismo quasi cinematografico con cui questa vicenda è balzata agli onori della cronaca ha a lungo alimentato la teoria che Snowden possa essere, in realtà, un agente “doppiogiochista” della Cina o di un altro Paese straniero vicino a questo governo e che le sue informazioni siano state usate al momento giusto per tamponare l’incalzare del governo americano sulle attività di spionaggio elettronico cinesi.

La teoria è senza altro interessante e il tempismo, come detto, gioca certamente a suo favore, anche in considerazione del fatto che Snowden, successivamente alle prime rivelazioni, abbia immediatamente cercato rifugio ad Hong Kong.

Tuttavia, ciò che fa propendere per l’esclusione di questa ipotesi è proprio la rilevanza delle informazioni che paiono essere in possesso di Snowden, molte delle quali tuttora ancora in suo possesso. Si tratta, infatti, di informazioni sottratte ad una tra le più importanti agenzie di intelligence americane (la Nsa) e classificate “Top Secret / Noforn”, ovvero “Top Secret / Not for release to foreign nationals, quindi – come si è visto – di assoluto rilievo soprattutto in campo internazionale.

Nessun decisore governativo, pertanto, troverebbe logico perdere una sua fonte capace di sottrarre un simile livello di informazioni, sia per qualità che per segretezza, per arginare – peraltro temporaneamente – le pressioni diplomatiche di un governo avversario. È più probabile, invece, che il “tempismo” della data d’inizio delle rivelazioni sia stato più che altro una abile mossa di marketing da parte del giornale The Guardian e che la Cina, ospitando Snowden ad Hong Kong, non abbia fatto nient’altro che provare a sfruttare il più possibile la situazione, mantenendolo il più possibile in libertà.

Le attività di spionaggio (anche elettronico) non vengono effettuate nei confronti di Paesi alleati.
Lo spionaggio è un’arte antichissima, le cui prime tracce documentate si trovano già nell’antico Egitto.

La digitalizzazione dei dati, la loro conseguente concentrazione e duplicazione incontrollata, ma anche e soprattutto la scarsa attenzione alle problematiche connesse con la protezione delle informazioni e l’uso invasivo delle tecnologie in ambienti sensibili, hanno fatto sì che lo spionaggio elettronico sia allo stato attuale una tra le principali e più concrete “minacce” derivanti dal cyber-spazio per la sicurezza nazionale ed economica di ciascun Paese.

Nonostante ciò, storicamente mai nessuna guerra è scoppiata a seguito della rivelazione di atti di spionaggio – men che mai di spionaggio elettronico – anche se svolti nei confronti di Paesi alleati e in tempo di pace. Ugualmente nessuna guerra scoppierà in conseguenza dello “scandalo” derivato dalla rivelazione pubblica da parte di Edward Snowden delle attività di spionaggio elettronico svolte dall’Nsa, così come risulta altamente improbabile che per simili circostanze si arrivi a sospendere l’istituzione di un’area di libero scambio tra Europa e Stati Uniti, come “minacciato” da alcuni.

Questo principalmente perché lo spionaggio è un’attività praticata da tutti gli Stati. Indistintamente e senza alleati. Ognuno sfruttando, ovviamente, le proprie possibilità economiche, tecnologiche, di mezzi e di uomini. Non è un caso, infatti, che il recente National Intelligence Estimate” sullo spionaggio elettronico, il primo nella storia del National Intelligence Council (Nic) americano che si focalizza specificatamente su questo argomento, prenda sì in considerazione la Cina come l’indiscutibile e principale attore impegnato in questo genere di attività, ma che, stando almeno a quanto riferito dal Washingotn Post, non manchino comunque anche i nomi di altri Paesi – come Russia, Israele e Francia – impegnati da tempo a svolgere attività di spionaggio elettronico contro gli interessi economici degli Stati Uniti.

Le attività di intelligence, inoltre, non possono essere considerate come atti ostili in sé, in quanto mirano principalmente ad ottenere informazioni strategiche su governi, eserciti, istituzioni economiche di altri Paesi, ecc., non arrivando quindi ad integrare gli estremi per far scaturire una risposta ostile.

Pertanto, i Governi che oggi a livello internazionale si indignano di fronte a questo “scandalo”, lo fanno principalmente perché obbligati politicamente a farlo e perché provano (giustamente) a sfruttare l’indignazione generalizzata dell’opinione pubblica, non abituata a gestire a livello “emozionale” questo genere di notizie, per svolgere pressioni politiche e diplomatiche sul governo degli Stati Uniti.
Questo banalmente anche solo al fine di provare ad arginare il più possibile – ma per un periodo di tempo comunque limitato – le loro capacità nel settore dello spionaggio elettronico, che, com’è noto, sono assolutamente all’avanguardia.

La Russia non ha motivi per proteggere Snowden e per non consegnarlo alle autorità americane.
Se è vero che non più di un mese fa Obama e Vladimir Putin abbiano annunciato un nuovo accordo bilaterale per la condivisione delle informazioni sulle minacce informatiche e che sulla scia degli attentati di Boston i governi delle due nazioni abbiano intensificato la cooperazione in materia di terrorismo, questo non esclude che il governo russo abbia allo stato attuale più di un motivo per non consegnare Snowden alle autorità americane.

Infatti, se come si suol dire, la storia è maestra di vita, la prima ragione alla base di questa scarsa cooperazione del governo russo che deve balzare immediatamente alla memoria è certamente quella legata alle vicende di Viktor Anatolyevich Bout e Sergei Magnitsky. Il primo detenuto negli Stati Uniti e di recente condannato a 25 anni di reclusione per traffico internazionale di armi ed il secondo, avvocato e attivista per i diritti umani, morto in circostanze sospette ed ispiratore di una legge americana – la legge Magnitsky, appunto –  volta a congelare i beni e a vietare l’accesso negli Stati Uniti ai funzionari russi sospettati di essere coinvolti nella sua morte.

Ma le possibili ragioni di questo atteggiamento non si limitano ad una mera operazione di ritorsione verso comportamenti americani pregressi.

Infatti, essere indirettamente protagonisti della vicenda di Snowden, mantenendolo libero e su “territorio” russo (anche se formalmente non lo è), il governo può svolgere la maggiore pressione possibile sulle multinazionali americane che offrono servizi tecnologici – come Google, Microsoft, Facebook, ecc. – affinché si conformino alle norme nazionali in materia di trattamento dei dati personali e concedano, di conseguenza, alle autorità russe un maggiore controllo delle attività svolte dai cittadini russi.

Stefano Mele è coordinatore dell’Osservatorio “Infowarfare e Tecnologie emergenti” dell’Istituto Italiano di Studi Strategici “Niccolò Machiavelli”.


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