È possibile ragionare di sviluppo e ripresa dei consumi con un deficit all’11 per cento e un debito pubblico al 245 per cento del PIL? La risposta, apparentemente sbalorditiva nel Vecchio Continente dominato dall’austerity, sembra positiva. E riguarda il Giappone governato dal conservatore e nazionalista Shinzo Abe, artefice di una strategia economico-finanziaria in controtendenza rispetto al rigorismo fiscale perseguito fino a pochi mesi fa dal Partito democratico, premiata dai cittadini nel rinnovo parziale della Camera Alta di Tokyo e divenuta un modello originale per il mondo accademico occidentale.
Le tre frecce per rilanciare il Sol Levante
Realizzate nella primavera 2013 per risollevare il Sol Levante da una ventennale stagnazione economica, le “Abenomics” si fondano su tre pilastri. Una politica monetaria fortemente espansiva, grazie all’immissione di liquidità compiuta dalla Bank of Japan che nell’arco di un biennio ha raddoppiato la base valutaria acquistando titoli del debito nazionale. Permettendo di raggiungere e mantenere un tasso di inflazione al 2 per cento e di uscire dall’immobilismo dei prezzi. Strategia accompagnata dalla svalutazione del 30 per cento dello Yen per incentivare l’export nipponico minacciato da Pechino. Una significativa riduzione delle tasse su famiglie e aziende, e una fiscalità di vantaggio per aree depresse come Fukushima post-incidente nucleare. Con una pressione tributaria al 30 per cento rispetto al 50 e oltre del Vecchio Continente. Per puntare, tramite un aumento dell’1,5 per cento della spesa pubblica, sulle eccellenze industriali del paese a partire dall’energia atomica. E infine una spinta al libero scambio con il Pacifico, che implica una liberalizzazione di agricoltura e pesca, settori tradizionalmente protetti e bacino di consenso per i Liberal-democratici di Abe.
Risultati e incognite delle Abenomics
Gli effetti dell’iniziativa, che spiazza i fautori del rigore di bilancio anche in epoca di contrazione della produzione e dei consumi, sono indiscutibili almeno nel breve termine. Nel primo quadrimestre del 2013 il Giappone è cresciuto del 3,5 per cento, il mercato borsistico del 55 per cento, l’avanzo commerciale di 300 miliardi di Yen grazie al +12 per cento delle esportazioni. A marzo la disoccupazione è calata al 4,1 per cento mentre la spesa delle famiglie è aumentata del 5,2. Le problematiche più evidenti riguardano la produzione industriale ancora lenta, e la perdita del potere d’acquisto delle retribuzioni reali che non tengono il ritmo dell’incremento dell’inflazione. Fattore critico in una realtà nella quale si va in pensione a quasi 70 anni percependo il 35 per cento dell’ultimo stipendio.
L’ostilità all’adozione nella Ue delle misure promosse a Tokyo
Le iniziative promosse a Tokyo possono rappresentare una strada per affrancare il Vecchio Continente dall’incubo della recessione sfidando l’austerity di Berlino e Bruxelles e puntando su una “terza via” tra liberismo e keynesismo? Scetticismo sull’efficacia delle “Abenomics” nell’Ue viene espresso dal liberista Nicola Rossi, professore di Economia politica all’Università di Roma Tor Vergata e testa pensante della montezemoliana Italia Futura oltre che protagonista del tentativo di orientare verso la sinistra liberale di Clinton e Blair il programma economico dei Democratici di sinistra prima e del Partito democratico poi. A suo giudizio la politica monetaria espansiva promossa dal premier nipponico è utile a “comprare il tempo necessario per attuare nel Sol Levante le riforme richieste da tempo”. Se il governo di Tokyo aprirà tutti i settori produttivi alla concorrenza, romperà l’intreccio malsano tra corporation industriali, colossi bancari e apparato burocratico, avvierà il risanamento del mastodontico debito pubblico, i provvedimenti di breve termine si riveleranno logici. Altrimenti l’intervento artificioso dell’esecutivo sull’andamento dell’economia porterà solo a un aumento incontrollato dei prezzi.
Riguardo alla possibilità di trapiantare nell’area euro le scelte compiute da Abe, lo studioso ricorda che la politica di immissione di liquidità nel mercato comunitario è stata già messa in atto un anno e mezzo fa dalla Bce. Il vero problema, spiega Rossi, è che Paesi come l’Italia non stanno utilizzando il tempo offerto dall’intervento di Francoforte per realizzare le riforme strutturali urgenti da almeno vent’anni. “Perché la crescita lenta del nostro Paese e la sua vulnerabilità alla crisi sono provocate da ritardi storici irrisolti: spesa pubblica abnorme, apparato statale elefantiaco e presenza massiccia della politica nell’economia, debito pubblico e fiscalità intollerabili. Pensare di sostituire la nostra ignava con altri round di iniezione di liquidità è un alibi fuorviante”.
Il giudizio lusinghiero sulla filosofia interventista degli stimoli di Abe
Radicalmente opposta la lettura del keynesiano Riccardo Realfonzo, professore di Fondamenti di Economia politica all’Università del Sannio, ex assessore al Bilancio a Napoli, studioso della teoria del circuito monetario concepita da John Maynard Keynes. In trincea dal 2009 contro le politiche di abbattimento del debito e di contrazione della spesa pubblica in Italia e in Europa, l’economista esprime un giudizio positivo sul segno keynesiano ed espansivo delle politiche promosse dal primo ministro giapponese: “Artefice di una rottura keynesiana grazie al pacchetto di stimoli fiscali pubblici del 2 per cento del PIL e agli investimenti statali in infrastrutture”. Accanto alle luci l’economista individua le ombre nel calo dei salari reali che non tengono il passo della crescita dei prezzi, “perché quando i processi redistributivi soffrono tali disparità la domanda interna tende a ristagnare. L’economia giapponese finirebbe tutta orientata sul lato delle esportazioni e le reazioni degli altri paesi potrebbero ripercuotersi negativamente nel lungo periodo”. E poi nel potere dei grandi cartelli di trust che limitano la concorrenza interna: “Costituiscono la base elettorale di Abe, e bisogna vedere se il premier riuscirà a rompere tali incrostazioni immettendo livelli alti di concorrenza”.
L’intervento intrapreso dal premier nipponico, spiega l’economista keynesiano, può essere applicato in Europa a una condizione: “Gli incentivi fiscali-finanziari dovrebbero partire dalle zone in crescita, con avanzi dei conti esteri e conti pubblici più solidi, quali la Germania e le nazioni centro-settentrionali. Se fossero attuati in un unico paese come l’Italia rappresenterebbero un importante sollievo per la crescita e l’occupazione, ma comprometterebbero ulteriormente la tenuta dei conti esteri”. Ma per Realfonzo una svolta espansiva è ineludibile, anche per realizzare una politica industriale in grado di risolvere “i nodi storici che attanagliano il nostro paese: inadeguatezza infrastrutturale, tessuto di imprese arretrate e troppo piccole, mancanza di politica industriale, difficoltà di accesso al credito, assenza di investimenti in formazione e ricerca”. I vincoli del fiscal compact imposti a paesi già in crisi, osserva Realfonzo, condurrebbero al disastro non riuscendo né a migliorare l’economia reale né a risanare i conti pubblici, come rivela l’esperienza fallimentare del governo Monti. Se non vengono superati è “perché l’economia tedesca si è avvantaggiata dello stato di crisi delle periferie Ue, le sue aziende esportatrici si sono avvalse della relativa debolezza dell’euro. Berlino si renda conto che proseguire così porterà al fallimento dell’euro e del mercato unico, con effetti nocivi per i suoi interessi di lungo periodo”.