Quello della crisi occupazionale dei giovani è un problema non più recente – nel senso che esiste, e se ne parla, da tempo – e purtroppo di grande attualità. L’Italia, tra le tante economie occidentali, è quella che ne sconta più severamente le conseguenze.
Per tante ragioni. Anzitutto – e soprattutto – perché siamo un Paese che invecchia, e lo fa troppo rapidamente. Poco più di venti anni fa la classe dirigente italiana aveva un’età media di 56 anni. Appena pochi anni più tardi, nel 2004, l’età media era salita a 61 anni. Un invecchiamento diffuso tanto nel settore pubblico quanto in quello privato. Basti pensare, per il settore privato, che nelle società quotate in borsa l’età media del management è di poco superiore ai 52 anni. Ma è il settore pubblico quello che riflette il divario più consistente. Il governo tecnico di Mario Monti ne ha dato la prova. Con 64 anni è stato il governo con l’età media più alta, sia rispetto ai 58 governi che lo hanno preceduto, a partire dal 1948; sia rispetto ai 27 esecutivi europei in carica al momento in cui il Presidente dell’università Bocconi ha giurato di fronte al Capo dello Stato. Un altro celebre governo tecnico, quello guidato da Lamberto Dini, aveva un’età media di 62 anni. Peculiarità dei governi tecnici? Nient’affatto. Nemmeno i governi politici hanno mai brillato per la giovane età dei propri componenti. La media, dal dopoguerra a oggi, è di 56 anni. Ben 634, tra ministri e capi di governo, si collocano nella fascia d’età compresa tra i 50 e i 59 anni. Molto nutrita anche la componente dei sessantenni (311 in totale).
È questo il quadro desolante della classe dirigente. Che, del resto, non può essere la sola colpevole. L’età media degli italiani non va affatto meglio. Siamo fermi a 43 anni e mezzo, troppi per la popolazione della settima economia al mondo. Il nostro tasso di fertilità è ridicolo. In una classifica di 222 nazioni, ci piazziamo alla (poco entusiasmante) 201esima posizione. Il tutto tenendo sempre bene a mente che se non fosse per i flussi migratori in entrata, quelli di cinesi, indiani ed europei dell’est, questi numeri sarebbero di gran lunga peggiori.
di qui al secondo motivo, che riguarda la capacità di competere dei giovani. Le occasioni di sviluppo professionale esistono ancora. Ma spesso non sono valorizzate. Ogni giorno viene pubblicata una nuova ricerca che svela i lavori per cui si cercano risorse umane, e si fa difficoltà a trovarne. Vorrebbero essere tutti avvocati, medici, commercialisti o magari giornalisti. Mentre l’informatica, alcune branche dell’ingegneria, e l’agricoltura specializzata fanno fatica a trovare nuove leve. Nel 1993 l’industria italiana aveva bisogno di circa undici tecnici ogni cento laureati. Oggi avrebbe bisogno del doppio. Peccato che siano sempre meno i diplomati di istituti di formazione professionale.
E fa fatica, a modo suo, il lobbismo. A modo suo perché si tratta di un settore versatile, capace di valorizzare competenze diverse, in discreta espansione e con buoni margini di miglioramento. Insomma, un settore che se non soffre una mancanza endemica di lavoratori nemmeno li trova con facilità. Perché i nostri giovani ce la mettono tutta per non qualificarsi.
A cominciare dall’istruzione. Parlare della giungla formativa del lobbying e public affairs è argomento troppo lungo, ci tornerò. Bastano però i dati generali. In particolare quelli sul mediocre livello di alfabetizzazione rispetto agli altri Paesi europei. La media OCSE dei diplomati, spalmata su tutte le fasce d’età, è del 73%. In Italia la media scende paurosamente, arrivando a malapena al 54%. Significa che poco più della metà hanno un “pezzo di carta” in mano, gli altri si sono fermati alla scuola dell’obbligo. Le nuovissime generazioni – quelle che, per capirci, abbracciano la fascia d’età tra i 25 e i 34 anni – faticano a tenere il ritmo con i coetanei francesi, tedeschi, spagnoli, inglesi o nordamericani. Sono appena 7 su 10 i giovani italiani in possesso di un diploma di scuola media superiore. Vi basti pensare che in Germania sono l’85%, in Canada l’89%. Negli Stati Uniti raggiungono addirittura il 91%.
Chi completa gli studi, poi, non è detto che si interessi al “pane quotidiano” del lobbista. Non parlo dei Neet (il cui potenziale sprecato, per inciso, costa all’Italia oltre 27 miliardi di Euro l’anno, pari a circa l’1,7% del prodotto interno lordo) ma della poca abitudine a leggere un quotidiano (non parliamo di leggere più di un quotidiano) e della poca conoscenza delle istituzioni e delle figure istituzionali.
Quei pochi che superano tutti gli ostacoli, e cioè completano un percorso formativo adeguato (e possibilmente nei tempi), conoscono almeno una lingua oltre a quella di appartenenza, si informano e hanno sviluppato la capacità critica necessaria per svolgere il mestiere, non solo vanno incontro a stipendi più che discreti, ma hanno anche l’imbarazzo della scelta. A Bruxelles si inizia intorno ai 2500 lordi, per arrivare a prenderne il triplo (Qui un reportage de Gli Euros).
E in Italia? I conti li ha fatti Franco Spicciariello, lobbista e organizzatore del primo master in relazioni istituzionali presso l’università privata Lumsa. In sintesi “Se negli Stati Uniti la spesa totale in attività di lobbying è passata da 1,44 miliardi di dollari del 1998 a 2,2 miliardi nel 2005, quella europea si aggira oggi tra 750 milioni e 1 miliardo di euro l’anno.In Italia mancano dati ufficiali,ma credo che per il lobbying in senso stretto possiamo stimare un valore intorno al 10% di quello europeo». Tradotto significa che, a seconda del ruolo, si guadagnano tra i 35mila e i 350mila euro annui.
Un mestiere d’oro. Se ci fossero le qualifiche.