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La nuova mappa della pena di morte con la “sorpresa” Cina

La previsione e l’applicazione della pena di morte nel mondo costituisce un parametro per capire lo stato delle libertà fondamentali e il primato del diritto sul potere. Un termometro valido per misurare l’evoluzione dei regimi autoritari e totalitari verso la democrazia politica.

È il dato che emerge nel Rapporto dell’organizzazione radicale “Nessuno tocchi Caino” sulla pratica delle esecuzioni capitali nel 2012 e nei primi 6 mesi del 2013. Un documento che conferma il trend positivo sulla strada della loro abrogazione, in corso da oltre 15 anni. Perché sui quasi 200 Paesi membri delle Nazioni Unite, sono 158 le nazioni che hanno deciso il loro superamento per legge o de facto, rispetto ai 40 che le mantengono nel proprio ordinamento e ai 22 che le mettono in atto.

I segnali incoraggianti provenienti dalla Cina

Nel panorama dei Paesi che conservano il “patibolo di Stato” a oltre cinque anni di distanza dalla storica Risoluzione del Palazzo di Vetro che su iniziativa dell’Italia ne stabilì la moratoria universale, spiccano 33 realtà dittatoriali, che annoverano 3.909 esecuzioni capitali pari al 98,5 per cento di quelle complessive. Alla guida della macabra graduatoria risultano Cina, Iran, Iraq. A riprova che la lotta contro la pena di morte in numerose realtà attiene all’impegno per la promozione delle libertà universali e della dignità umana. Eppure nella nazione che detiene il triste primato emergono novità interessanti e prospettive promettenti. A partire dal gennaio 2007, quando alla Corte suprema è stato attribuito il potere di rivedere i giudizi dei tribunali di grado inferiore, è stato annullato in media ogni anno il 10 per cento delle condanne. Nell’arco di 6 anni le esecuzioni sono diminuite di oltre la metà, passando dalle 10mila dei primi anni 2000 alle 3mila del 2012. Un indubbio passo in avanti, favorito dalla riforma del codice di procedura penale nella direzione di “una più scrupolosa attenzione per il rispetto delle garanzie dell’imputato e dei diritti umani da parte degli organi giurisdizionali”, di una più marcata trasparenza e legittimità dei processi, di una restrizione dei reati in cui applicare la pena di morte.

Il panorama desolante dei Paesi islamici

Al contrario di quanto registrato a Pechino, non presenta cambiamenti la realtà del primatista planetario per numero di esecuzioni in rapporto agli abitanti. Nella Repubblica islamica dell’Iran guidata dagli Ayatollah lo scorso anno sono state giustiziate 587 persone, senza considerare le almeno 240 esecuzioni compiute clandestinamente nelle prigioni. Conferma solare del nesso tra omicidi di Stato e regime repressivo è l’impennata di condanne pubbliche a partire dal 2009, stagione dell’Onda verde dei giovani oppositori della teocrazia integralista-militare soffocata nel sangue. Tra il 2012 e il giugno 2013 si sono svolte 97 impiccagioni, che non hanno risparmiato ragazzi minorenni e gli oppositori politici bollati come “nemici di Allah”. Ai quali prima del patibolo vengono riservate torture, fustigazioni, amputazioni degli arti. Al terzo posto nella graduatoria mondiale si colloca l’Iraq, che ha recepito il modello iraniano mettendo a morte nell’ultimo anno e mezzo almeno 179 individui. Si tratta del numero più elevato di condanne dal 2005, quando l’istituto è stato reintrodotto: da allora sono state giustiziate 497 persone, la gran parte per reati di terrorismo. E oggi nel braccio della morte se ne contano circa 1.400. Un tributo di sangue che richiama il legame tra pena capitale e applicazione ortodossa della Sharia. Le sue prescrizioni crudeli e ataviche come quelle che puniscono con la vita i “crimini di apostasia, blasfemia, stregoneria, adulterio”, vengo abilmente strumentalizzate da tirannie secolari o fondamentaliste per stroncare ogni aspirazione liberale. Non è casuale se le 872 esecuzioni ufficiali celebrate nel 2012 riguardano 12 paesi a maggioranza musulmana. Cambia soltanto la rappresentazione della condanna: impiccagione in Iran, Iraq, Afghanistan, Sudan e Palestina; decapitazione, esclusiva dell’Arabia Saudita; fucilazione negli Emirati Arabi Uniti, Yemen, Somalia; lapidazione in Iran, Pakistan, Somalia.

Luci e ombre nelle democrazie liberali

Mentre nel 2011 le democrazie che avevano applicato la pena capitale in 48 casi erano limitate a Usa e Taiwan, nell’anno seguente sono aumentate a cinque: Giappone, che ha giustiziato 12 persone per impiccagione, India, che ne ha mandate al patibolo 2 per terrorismo dopo una moratoria risalente al 2004, Botswana e l’Indonesia, che ha rimesso in funzione il boia di Stato dopo una sospensione che durava dal 2008. Gli orientamenti più incoraggianti provengono dagli Usa, dove negli ultimi sei anni si registra un’evidente tendenza verso l’abolizione della pena capitale, con un ritmo di uno Stato ogni anno. A partire dal 2007 l’anno abrogata New Jersey, New York, New Mexico, Illinois, Connecticut, Maryland. Ricordando che l’Oregon ha dichiarato nel 2011 una moratoria di tre anni su tutte le condanne e che dei 34 Stati in cui ancora vige il patibolo 9 non effettuano esecuzioni da più di dieci anni, è appena la metà a conservarlo. E il dibattito è destinato a proseguire, sul versante dei clamorosi errori giudiziari – dal 1973 al 2012 i condannati a morte poi prosciolti ammontano a 142 – e su quello dei suoi costi: l’ergastolo pesa sull’erario per 500mila dollari contro i 2 milioni necessari per tenere nel braccio della morte e poi giustiziare una persona.

Gli obiettivi di Nessuno tocchi Caino

Convinti che la strada da perseguire a livello internazionale debba essere “il confronto liberale e dialogico della moratoria delle esecuzioni rispetto a quello fondamentalista e manicheo dell’abolizione tout court”, i responsabili dell’associazione radicale creata nel 1993 da Maria Teresa Di Lascia indicano gli obiettivi immediati nel “superamento del segreto di Stato sulla pratica della pena capitale affinché vi possa essere un dibattito aperto e informato sul tema”, e nella sua limitazione “ai soli reati gravi e violenti”. Per evitare che il patibolo venga applicato per reprimere il dissenso politico o la libertà di coscienza delle minoranze religiose, come accade in Cina, Corea del Nord, Vietnam, Iran. E contano di incoraggiare i paesi dell’Africa che hanno recentemente optato per la moratoria delle condanne: Tunisia, Sierra Leone, Ciad, Repubblica Centrafricana, Sudan del Sud. Lungo tale direttrice intende muoversi il governo italiano che per bocca del ministro degli esteri Emma Bonino “si impegna con l’Unione Europea a pretendere limiti precisi all’applicazione della pena capitale nella stipula degli accordi commerciali con i paesi terzi”. Realtà come la Russia, che quale membro del Consiglio d’Europa rispetta dal 1996 una sospensione delle esecuzioni capitali, e soprattutto la Bielorussia che dal tramonto dell’Unione Sovietica non ha mai smesso di condannare e giustiziare i suoi cittadini, tre volte nel 2012.

E l’Italia?

Capofila nella battaglia mondiale contro il “boia di Stato”, l’Italia non può ergersi a modello di civiltà giuridica. La realtà delle sue prigioni, spiega Giuseppe Ferraro, professore di Filosofia all’Università di Napoli “Federico II”, non lo consente: “Pioniere sulla moratoria della pena di morte, il nostro paese mantiene il carcere a vita fino alla morte, o la morte per pena come rivela l’esistenza dell’ergastolo e gli interminabili suicidi dei detenuti”. E il carcere, rimarca lo studioso, non può essere ridotto a degradazione della dignità umana, deve essere restituito alla Polis rendendo la pena un diritto, una possibilità di lavorare su se stessi: “Perché non sia un luogo di sepoltura di persone che cambiano nel tempo e devono essere restituite alla società”.


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