A giorni, settimane nell’ipotesi peggiore, una nuova regione avrà la sua legge sul lobbying. Manteniamo il giusto riserbo e scaramanzia sul nome. Ma, se tutto andrà bene si andrà ad aggiungere alla lista di quelle che hanno già tentato didisciplinare i lobbisti, per esempio la Toscana, l’Abruzzo, le Marche, e confermerà un trend oramai consolidato. Sono sempre più le regioni il posto dove guardare per capire come si sta evolvendo il tentativo di dare regole al lobbying
Perché? Fondamentalmente per quattro motivi:
Perché, per cominciare, il recente intervento del Governo sul Titolo V della Costituzione – con un parziale revirement rispetto all’orientamento emerso 11 anni fa: meno poteri alle Regioni e più controllo allo Stato – e, contestualmente, la volontà di riformare le Province, rafforzando i Comuni (o le Città metropolitane) non hanno inciso sull’importanza che gli amministratori locali hanno rispetto alla definizione delle decisioni. Sono tasselli cruciali di un meccanismo molto complesso. Lo sono sia individualmente che collettivamente. Basti pensare alla potenza di fuoco della Conferenza Stato-Regioni. Nella scorsa legislatura riuscì quasi nell’intento di affondare l’abolizione delle province. Non ci riuscì per poco. Ci avrebbe pensato il Parlamento e più recentemente la Corte costituzionale.
Perchè, in seconda battuta, la “stretta” sui costi della politica regionale, è concisa con un clima di profonda ostilità nei confronti della politica in generale, compresa quella locale. Colpevole, secondo l’opinione pubblica, di cattiva gestione della cosa pubblica, sperpero di denaro e, soprattutto, di meccanismi di reclutamento e decisione poco trasparenti e poco inclusivi degli interessi dei cittadini. È evidentemente un problema anche di lobbying, oltre che di legittimazione degli amministratori locali.
Infine, per la logica dei numeri. Cito un dato già noto, ma sempre significativo: a fronte di ben 23125 atti parlamentari dedicati, durante la Legislatura precedente, al tema degli enti territoriali, l’attività normativa locale rimane preponderante per numeri e qualità delle regole. La cartina di tornasole è data dal confronto tra l’attività legislativa generale delle Regioni e dello Stato. Dal 2004 al 2009 le leggi regionali approvate sono passate da 665 a 737. Fatta eccezione per il 2010, quando l’avvicendamento nelle Giunte e nei Consigli prodotto dalle elezioni amministrative ha causato un periodo di stasi legislativa, il trend è in crescita anche negli anni successivi. Nello stesso lasso di tempo le leggi approvate dal Parlamento sono calate da 32 a 18. Anche qui il trend (decrescente) è confermato negli ultimi quattro anni, a fronte della prevalenza assoluta della decretazione d’urgenza, che ha spossessato ulteriormente il Parlamento delle proprie prerogative.
Ecco perché oggi più che mai il “laboratorio” locale si presta a essere il punto di vista privilegiato per un tentativo di introdurre nuove regole per la rappresentanza di interessi. Il bacino d’utenza più ristretto, e quindi la presenza di un rapporto radicato tra comunità locali e amministratori, rendono ancor meno giustificabile l’assenza di regole sul lobbying. Farne a meno, come accade oggi, significa fare a meno delle prerogative di indipendenza e responsabilità che la Costituzione e le leggi italiane riconoscono alle Regioni e agli Enti locali.
Certo, una volta individuate le regole bisogna farle funzionare. L’esempio toscano è oramai di scuola e quello abbruzzese non è mai entrato a regime per mancanza dei decreti di attuazione, tanto per fare due esempi. Perché il trend si confermi quantitativamente, ma anche qualitativamente, consistente, servono sforzo e capacità. Quelle che finora al governo delle larghe intese sono mancate.