Egitto nel caos. Il Cairo sull’orlo di una guerra civile. I titoli sono di questi giorni ma la storia non inizia a fine giugno con la controrivoluzione dell’esercito che ha deposto, sull’onda di proteste di piazza, il premier Morsi espressione dei Fratelli musulmani. No, la storia inizia i primi giorni di giugno. Del 2009.
Il presidente degli Stati Uniti d’America, Barack Hussein Obama, è l’ospite d’onore all’università del Cairo e nessuno può prevedere, prima d’allora, che il suo intervento sarebbe stato a tutti gli effetti “storico” determinando una svolta dalle conseguenze ancora non del tutto esplorate. Fu in quella occasione che il comandante in capo degli Usa “aprì” all’Islam politico tendendo la mano, fra l’altro, all’allora presidente dell’Iran, Ahmadinejad.
Fu la prima rondine che anticipò (e promosse) la stagione delle cosiddette primavere arabe. Con il consenso Usa, non manifesto ma neppure troppo implicito, si determinò un ampio regime change che rovesciò i consolidati governi di Tunisia, Libia ed Egitto. Storici alleati dell’Occidente e argine potente alle infiltrazioni di Al Qaeda e suoi franchising, Mubarak, Gheddafi e Ben Ali caddero sotto le lance di Al Jazeera, la potente tv del Qatar ovvero di un Paese tanto ricco quanto non democratico ma con ambizioni geopolitiche particolarmente evolute e dalla forte impronta islamica. In quel momento, si determinò una sorta di illusione di massa.
Le organizzazioni confessionali islamiche (non propriamente moderate) trovarono il modo di lanciare la loro Opa convertendo quei Paesi che avevano costruito nella laicità un proprio tratto distintivo. L’Unione Europea poteva da un lato sostenere gli Usa e dall’altro gli storici avversari di Israele. Una occasione imperdibile, che infatti fu colta e alimentata con una retorica primaverile “robusta”.
Quella sfida oggi può dirsi persa. Ha perso anzitutto Obama ed ha perso, ancora una volta, l’Europa. Dopo quattro anni, l’Egitto brucia, la Libia è fuori controllo e in Tunisia la piazza rivela la disillusione nei confronti di Ennahda, il partito islamico cugino dei Fratelli musulmani che arrivato al governi sta cercando di riportare indietro le lancette dell’orologio cancellando tutti i progressi civili (e laici) compiuti negli ultimi decenni. Un capolavoro. Senza neanche citare la diffusione delle organizzazioni jihadiste e delle persecuzioni nei confronti dei cristiani. Se non ci fosse un’informazione che bombarda sul giorno dopo giorno facendo dimenticare cosa accaduto nelle settimane e nei mesi precedenti, questa politica estera avrebbe condotto nella migliore delle ipotesi ad una profondissima autocritica. Che ovviamente non c’è stata.
Anzi, l’impressione è che la Ue e, soprattutto, Obama continuino a perseverare su una politica che ignora le differenze storiche, sociali e culturali fra la tradizione occidentale e quella medio-orientale. La democrazia di Toqueville non è esportabile dappertutto, in ogni luogo e in ogni tempo, attecchendo con facilità e immediatezza. Purtroppo, non funziona così. L’Islam politico è una intuizione magari corretta ma non è molto di più che una intuizione. Sicuramente non è una realtà o perlomeno una realtà assimilabile alla politica democratica come la interpretiamo noi. Questo, è chiaro, non significa giustificare le violenze che l’esercito egiziano ha usato contro i rivoltosi. Neppure però si può ignorare che in tutti i modi in queste settimane i Fratelli musulmani hanno rifiutato ogni ipotesi di compromesso (tentato debolmente anche dalla diplomazia Ue che in questi anni non ha ancora segnato un solo punto a suo favore, se non comunicati stampa di sdegno qua e là).
Sono i Fratelli musulmani, collegati a Qatar, Hezbollah e Iran (realtà diverse che hanno in comune un sentimento anti-israeliano non banale), ad aver scelto di sfidare il governo cercando esplicitamente la via del “martirio”. Quello dei militari quindi potrebbe essere un errore – non solo per il sangue versato che non è mai e in alcun modo tollerabile – anche per ragioni strettamente politiche: hanno fatto esattamente ciò che i Fratelli musulmani si aspettavano e volevano. Il presidente Obama, sospinto dalle critiche espresse dal New York Times e dal Washington Post, ha interrotto le sue comode vacanze per rilasciare dichiarazioni in parte pilatesche (“Gli Usa sono partner dell’Egitto e non si schierano con nessuno”) in parte contraddittorie (ritogliendo il sostegno all’esercito).
I ministri degli esteri della Ue fanno a gara a convocare ambasciatori e rilasciare dichiarazioni indignate. Di quanto contemporaneamente accade in Libia o in Tunisia non si parla. Si plaude tanto, forse troppo, a Rowhani in Iran. Si ignora il dramma di un Iraq dilaniato da attentati che provocano ogni giorno decine di morti. Si resta senza progressi nel pantano della Siria (altro errore strategico dell’Amministrazione Usa) e si lascia Israele sostanzialmente isolato nella garanzia della propria sicurezza. Laddove vi è una iniziativa significativa come quella dei colloqui di pace promossi da John Kerry, la Ue da parte sua resta ai margini manifestando scetticismo. Insomma, la destabilizzazione dell’area che va dal Nord Africa, passa dal Medio Oriente ed arriva nel Golfo Persico non sembra essere affrontata da Stati Uniti ed Europa con la consapevolezza della complessità della situazione e dei valori in gioco. In questo, e spiace dirlo, Obama ha una responsabilità precisa.
Non si tratta di tornare alla strategia yankee di Bush jr. La seconda guerra in Iraq e il conflitto in Afghanistan sono stati episodi altrettanto fallimentari di una politica che in modi diversi ed entrambi controproducenti ha tentato invano di imporre/esportare la democrazia. Noi nel Vecchio Continente non siamo immuni da autocritiche. Anzi. Abbiamo sostenuto gli orrori di Bush come ora gli errori di Obama. Alleati privi di una capacità strategica autonoma non sono molto utili nè ha senso assecondare acriticamente le propagande islamiste e antisioniste. L’Europa e l’Italia in modo particolare potrebbero riprendersi un ruolo attivo nel quadrante del Mediterraneo ricostruendo una sorta di terza via degna di una storia millenaria di cui il nostro Paese è testimone anche più di altri. Per riuscirci occorre investire – e tanto – in difesa, cooperazione, soft power e intelligenza politica.
Potremmo, se vorremmo. In realtà, dovremo farlo. Se non si doma l’incendio nel Club Med, primo o poi si propagherà anche nella sponda Nord e a bruciarci saremo noi, non gli altri. Gli Usa questa volta, dobbiamo ammetterlo non sono molto d’aiuto. E se Obama sbaglia noi non abbiamo una responsabilità in meno. Ne abbiamo una in più.