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Giornalisti nel mirino inglese e Usa. Le storie e una petizione

Ci sono stati momenti migliori per essere giornalisti in Inghilterra e negli Stati Uniti.

David Miranda, il partner brasiliano del giornalista del Guardian Glenn Greenwald che per primo raccolse le rivelazioni della talpa Snowden sul programma di sorveglianza della statunitense Nsa è stato detenuto per nove ore dalla polizia dell’aeroporto di Heathrow per interrogarlo. All’uomo non è stato consentito, come prevede la legge, parlare con gli avvocati inviati dal Guardian né con i diplomatici brasiliani recatisi allo scalo. In quell’occasione gli sono stati inoltre sequestrati alcuni apparecchi elettronici, fra cui il cellulare, il tablet ed alcune chiavi Usb. Miranda ha aperto adesso una procedura legale contro le autorità britanniche e la notizia di tale decisione è stata data dal direttore del Guardian, Alan Rusbridger.

Ma può accadere anche di peggio, si legge in un articolo del movimento Freepress che invita tutti a firmare una petizione affinché i governi mettano fine alle intimidazioni verso la stampa e le loro famiglie. “Ieri abbiamo appreso che le autorità britanniche hanno sequestrato e distrutto i computer presso la sede di Londra del Guardian”, si legge nell’articolo.

Il Datagate tra intimidazioni e libertà di stampa

Il direttore del quoridiano inglese non ha dubbi: “Si è trattata di un’intimidazione”,  dichiara Rusbridger il quale rivela che le pressioni da parte delle autorità britanniche sono cominciate già un mese fa con una telefonata in cui si chiedeva la restituzione di tutto il materiale relativo al caso Datagate.
Secondo il giornalista Greenwald si tratta di ‘‘un serio attacco alla libertà di stampa’‘, Amnesty International ha denunciato il comportamento di Londra mentre il ministro degli Esteri brasiliano è intenzionato a consultare il collega britannico.

Ma “perchè hanno voluto interrogare Miranda? Secondo il Terrorist Act la polizia ha il potere di fare domande solo per capire se si ha davanti un terrorista. E’ questo quello che pensavano di Miranda? E se sì, su che basi?”, chiede l’esperto David Anderson sul Guardian.
Secondo quanto riferito da Miranda durante l’interrogatorio di nove ore nessuna domanda gli è stata rivolta sul terrorismo, mentre da Washington assicurano di non aver impartito nessun ordine dalla Casa Bianca: “E’ stata una decisione del governo britannico sulla base della legge britannica. Ci hanno avvertiti che il fermo sarebbe avvenuto, ma noi non siamo stati coinvolti in alcun modo, hanno fatto tutto da soli” .

Solo la punta di un iceberg
“Gli attacchi contro la stampa non si fermeranno a meno che il pubblico non alzi la voce”, recita l’invito a sottoscrivere la petizione. In definitiva, non si tratta di singoli giornalisti o di un caso specifico. È in ballo il ruolo stesso del giornalismo all’interno della democrazia.

Ciò che preoccupa è la campagna intrapresa negli ultimi mesi dalle autorità degli Stati Uniti per minacciare e intimidire i giornalisti. Nell’articolo si fa riferimento anche alle rivelazioni sulle intercettazioni svolte dal Dipartimento di sicurezza americano ai danni dei giornalisti dell’Associated Press, e alle intimidazioni fatte recentemente a un giornalista del New York Times affinché riveli la fonte di un’altra fuga di notizie.

La storia di Laura Potrais

A finire sotto il mirino della autorità americano è stata anche Laura Potrais, forse la figura del Datagate rimasta più sottotraccia ma che per questa vicenda è stata arrestata ben 40 volte. In pochi la conoscono ma Potrais è una degli artefici delle informazioni rilasciate lo scorso giugno. Senza di lei probabilmente Snowden non avrebbe mai potuto condividere i documenti resi noti poi da Greenwald sul Guardian.

È un lungo e dettagliato documento pubblicato sul New York Times a descrivere il rapporto dello speciale “trio” che ha dato origine al Datagate, spiegando i punti salienti dell’aiuto di Poitras a Snowden nello svelare il funzionamento di Prism e delle altre tecniche di spionaggio della NSA.
La donna è famosa all’interno della comunità cinematografica per aver vinto un Peabody Award ed essere stata nominata all’Oscar per il documentario “My Country, My Country” sulla guerra in Iraq.


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