L’uso di armi chimiche in Siria accende il dibattito politico internazionale. Da un lato ci sono Russia e Cina, contrarie ad un intervento militare nei confronti di Damasco – contro il quale porrebbero il proprio veto all’Onu – in mancanza di prove che consentano di addebitare precise responsabilità all’attacco che la scorsa settimana ha provocato oltre 1300 morti. Dall’altro ci sono le pressioni di chi, come Francia e Regno Unito, ritengono indispensabile un’azione decisa per riportare la pace e la stabilità nella regione. In mezzo l’ormai cronica divisione dell’Unione europea e l’attendismo di Barack Obama.
Una strategia, quella americana, condivisa dallo storico Ennio Di Nolfo, professore emerito di Storia delle relazioni internazionali all’Università degli Studi di Firenze, che in una conversazione con Formiche.net spiega passi e prospettive della politica estera di Washington.
Professore Di Nolfo, come giudica le mosse degli Usa in Siria?
Credo che la strategia adottata da Obama sia quella corretta. Meglio lasciare che Bashar al-Assad e i ribelli si combattano a lungo si sfianchino, in modo che siano costretti ad accordarsi.
Perché lo pensa?
Mi pare che ci sia un quadro esterno che lascia presagire un insuccesso in caso di un tentativo di pacificazione. Le due forze regionali che avrebbero potuto contribuire a stabilizzare il conflitto siriano non godono di buona salute. La Turchia è in preda a una crisi interna, mentre l’Egitto è attraversato da altri e noti problemi. E poi ritengo che ci siano dei precedenti storici che sconsigliano l’intervento Usa in qualsiasi evento in Medio Oriente. L’Iraq è l’esempio più clamoroso. Ho sempre in mente l’immagine di Colin Powell che davanti al Consiglio di Sicurezza dell’Onu cercava di dimostrare che Saddam Hussein fosse in possesso di armi di distruzione di massa, eventualità come sappiamo mai provata, almeno in quegli anni. Ciò è stato all’origine di uno dei disastri più clamorosi di politica americana in Medio Oriente. Ma gli esempi sarebbero tanti, compreso il recente intervento in Afghanistan che non ha portato ai risultati attesi e qualche miglioramento si inizia ad ottenere solo ora che Hamid Karzai e il Pakistan – la nazione che offriva ospitalità e protezione a Osama Bin Laden e Al Qaeda – hanno deciso di accordarsi per trovare un compromesso con i talebani.
Allora perché tante rimostranze nei confronti di Obama?
Penso che le accuse – per me esagerate ed eccessivamente critiche – siano dettate da una visione pregiudizialmente ostile alla sua politica internazionale.
Però c’è chi chiama l’Occidente alle sue responsabilità, mettendo l’accento sull’uso vietato e orrendo delle armi chimiche.
La complessità del quadro della situazione siriana mi pare che renda impossibile una assegnazione netta di responsabilità. Assad è un dittatore sanguinario, che non ha avuto esitazioni, come suo padre, ad usare la forza contro il suo popolo. Ciò fa parte di una tradizione di dominio della setta alawita nei confronti del resto del Paese. Però non bisogna dimenticare che contro di lui c’è una rivolta portata avanti in una situazione composita: in parte da una classe media orientata verso la richiesta di istituzioni moderate, ma sappiamo anche che da tempo il fronte ribelle è infiltrato da organizzazioni jihadiste come Al Nusra e questo rende problematica ogni ipotesi di stabilire chi governerebbe la Siria dopo un possibile intervento. In ogni caso, sarebbe comunque un governo ostile agli Usa e all’Occidente, anche per questo mi auguro che Obama non segua le pressioni neocolonialiste di Francia e Gran Bretagna, che hanno già creato problemi evidenti in Libia.
Più che Francia e Regno Unito, il Wall Street Journal crede che la titubanza di Obama si spieghi con le pressioni dei sauditi, ansiosi di espandere ancora di più la loro influenza sulla regione in un intreccio economico e geopolitico che non può lasciare indifferenti gli Usa. Quali valutazioni muovono secondo lei il presidente americano?
Io credo che la preoccupazione principale di Obama non sia legata a sue esitazioni strategiche, quanto ai negoziati in corso tra israeliani e palestinesi. Le tensioni tra i due sono il fulcro di tutti i problemi del Medio Oriente. La situazione nella regione muterebbe radicalmente davanti a un accordo. Accanto a questo c’è l’emergere di una contraddizione nel mondo islamico: la scintilla tra sunniti e sciiti e una competizione sempre più accesa all’interno del mondo sunnita – quindi tra Arabia Saudita e Qatar – ma mi sembra un conflitto non equo perché la prima è alleata degli Usa, mentre la seconda offre spesso il proprio sostegno al jihadismo o comunque a forme di Islam militante, come in fa in Egitto con la Fratellanza musulmana.
Obama si guarda dunque bene da un intevento perché ciò susciterebbe reazioni ostili nello stesso mondo palestinese, soprattutto in quelli che vivono in zone controllate da Hamas, proprio ora che sembra esserci un avvio proficuo dei negoziati.
E poi infine, a latere, c’è la volontà di non bruciare in anticipo le prospettive di negoziati seri con l’Iran. Nessuno sa se il neopresidente Rohwani sia l’uomo giusto per porre fine alle tensioni tra Usa e Islamabad, ma in lui sono riposte molte speranze; e se non si vuole reciderle, attaccare la Siria non è la scelta più saggia.
Che ne pensa delle divisioni europee in politica estera?
Le commento con tristezza. La posizione dell’Europa è paradossale, dal momento che è la parte del mondo che avrebbe maggiore interesse a una pacificazione dell’area. Il moralismo è uno dei peccati della politica estera europea, nella quale non si elaborano mai azioni costruttive, ma si assumono solo sterili provvedimenti. Non vi è una causa univoca a questo immobilismo, che mi pare piuttosto la somma di tutti i problemi e le contingenze dei singoli Paesi: le elezioni tedesche, il velleitarismo francese, la crisi economica italiana.
Come si comporterà l’Italia in caso di conflitto?
Questo non so dirlo, ma penso che se ci fosse una guerra faremmo bene a stare il più lontano possibile dalla Siria. Sicuramente potremmo dover mettere a disposizione le nostre basi Nato – concessione su cui anche ho seri dubbi – ma non andrei assolutamente oltre.