Sembra del tutto ovvio che il principio di eguaglianza, iscritto nell’articolo 3 della Costituzione, richieda necessariamente una sorta di automatismo tra una sentenza passata in giudicato e la decisione che la stessa Costituzione riserva al Parlamento in base all’articolo 66.
Occorre infatti aver presente che la Costituzione fu scritta – anche in riferimento all’eguaglianza – sulla base di tre distinte ispirazioni di fondo: quella strettamente liberale; quella di ispirazione cattolica e quella di origine hegeliano-marxistica.
Fu infatti del tutto naturale avere tre distinte idee di eguaglianza così come si avevano tre distinte idee di partito e, di conseguenza, tre distinte idee di Parlamento.
La Costituzione vigente fu infatti scritta proprio sulla base di tre distinte ispirazioni di fondo che sono state peraltro in qualche misura sottoposte a modifiche di fondo anche sostanziali per significativi avvenimenti politici, quali la conclusione dell’esperimento sovietico e l’avvento della cosiddetta Seconda Repubblica.
La vicenda della decadenza di Silvio Berlusconi dal Senato della Repubblica può pertanto essere considerata anche oggi in modo distinto a seconda di quale idea di eguaglianza si abbia in mente e – di conseguenza – sulla base di quale idea di quale rapporto tra politica e giustizia si intende porre a fondamento delle decisioni da adottare.
Viviamo infatti oggi in una situazione che certamente non è hegeliano-marxistica neanche da un punto di vista partitico.
Allo stesso tempo viviamo in una situazione che mantiene l’idealità tipicamente cristiana della centralità della persona umana in termini non più coincidenti con l’originario articolo 3 della Costituzione.
Soprattutto per i cattolici, infatti, l’eguaglianza aveva a presupposto un’idea della persona umana intesa quale soggetto antecedente anche rispetto allo stesso Stato, come si ricava espressamente dall’articolo 2 della medesima Costituzione.
Si può pertanto affermare che prevale oggi una lettura dell’eguaglianza non culturalmente coincidente con quanto previsto dall’articolo 66 della Costituzione.
In base a questo, infatti, anche per le questioni di ineleggibilità e di incompatibilità parlamentari, non vi è mai alcun automatismo tra decisioni giudiziarie anche se definitive e le conseguenti decisioni politico-parlamentari, proprio perché nella Costituzione originaria vi era una sorta di primato dello status di parlamentare anche rispetto alle sentenze passate in giudicato.
Questo appare il punto centrale del rapporto tra la cosiddetta Legge Severino e la Costituzione repubblicana, e tra la medesima legge da un lato e la Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo dall’altro.
In nessuna delle tre letture costituzionali dell’eguaglianza si può peraltro leggere che il voto popolare sia di per se sufficiente anche rispetto alle decisioni definitive della magistratura.
Questa visione appartiene infatti ad una sorta di deriva populistica alla quale è esposta ciascuna delle tre letture possibili del principio costituzionale di eguaglianza.
Dalla Costituzione, infatti, non si può mai far derivare una pretesa prevalenza del voto popolare rispetto alle sentenze, perché vi è il principio della prevalenza del voto parlamentare – ma non anche del voto popolare – sulle sentenze: queste sono poste infatti o sulla base della cultura dello stato di diritto, che afferma infatti l’eguaglianza di tutti di fronte alla legge; o a compimento del primato della persona umana; o a derivazione dalla visione per così dire hegeliano-marxistica del principio di eguaglianza.
Non è dunque indispensabile che si rimetta alla Corte costituzionale questa fondamentale questione, quanto che si esaminino adeguatamente questi rilevanti profili di storia costituzionale senza essere travolti da improvvise spinte anti-parlamentari o persino anti-politiche, quali talvolta sono state presenti ed operanti anche nella recente storia italiana.