È lontano il tempo in cui l’apparato del Pd, granitico come un monolite in tutte le sue correnti, reagiva con forza per bloccare la battaglia solitaria promossa da Matteo Renzi in nome di una visione liberale e “americana” della forma partito, della vita istituzionale, delle dinamiche economico-sociali. Le sue torsioni programmatiche orientate verso sinistra e l’accentuata vaghezza negli obiettivi hanno prodotto un risultato clamoroso. Perché attorno alla candidatura del primo cittadino di Firenze si respira il clima del plebiscito imminente, anche grazie all’ondata di endorsement di rappresentanti della nomenclatura del Nazareno.
Le originarie aspirazioni riformatrici incarnate dall’ex fautore della rottamazione sono destinate a crollare sotto il peso di un establishment inamovibile da quasi vent’anni? O Renzi ha messo in atto un’abile e temporanea manovra tattica per raccogliere i numeri necessari a vincere e poi recuperare di slancio il suo primigenio messaggio di rottura?
Formiche.net ha rivolto tali interrogativi a Luca Ricolfi, sociologo di fama internazionale e studioso degli orientamenti profondi in atto nell’opinione pubblica, editorialista de La Stampa e professore di Analisi dei dati presso la Facoltà di Psicologia dell’Università di Torino oltre che fondatore della rivista di studi elettorali “Polena”.
Rispetto alle primarie 2012 si registra una trasformazione del programma economico di Renzi da liberista progressista a neo-laburista. Tale elasticità può costituire un fardello nella realizzazione dell’originario messaggio di rottura rispetto a un partito permeato di statalismo, dirigismo, culto della spesa pubblica?
Sì, ma solo dal punto di vista dell’azione di governo, non della costruzione di un messaggio di rottura. Per quest’ultimo bastano poche parole d’ordine ben scelte, possibilmente demagogiche al punto giusto: nuova legge elettorale, riduzione dei privilegi della casta, facce nuove al governo. Più la solita giaculatoria progressista: “Equità”, “inclusione sociale”, “lotta alla disoccupazione”.
Le adesioni crescenti attorno alla candidatura di Renzi rivelano una continuità storico-culturale con il centralismo democratico dell’ex Pci, che prevede ci si accodi al leader ritenuto vincente per pura fedeltà al partito? O si tratta di convenienza opportunistica da parte di rappresentanti della nomenclatura Pd?
Ritengo siano espressione di entrambi i fenomeni, anche se bisogna osservare che a saltare sul carro del vincitore sono soprattutto i militanti e i membri dell’apparato. Non gli elettori, già largamente renziani ai tempi del voto.
È un passo indietro rispetto ad altre formazioni della Prima Repubblica che avevano una dialettica più articolata, a partire dalla Dc nei confronti dei suoi “cavalli di razza”?
Sì. Nei vecchi partiti vi erano anche divisioni basate sui contenuti e le correnti esprimevano queste diverse prospettive politiche. Nello stesso Pci, che pure non aveva correnti, è sempre stato piuttosto chiaro cosa voleva Giorgio Amendola e cosa voleva Pietro Ingrao. Mentre nel Pd i pochissimi che volevano qualcosa di ben definito sono stati costretti ad abbandonare il partito o a restarsene ai margini: Pietro Ichino, Nicola Rossi, Michele Salvati, Massimo Cacciari, Sergio Chiamparino non hanno mai contato quasi nulla. E oggi finalmente sembrano averne preso atto.
Nel Partito democratico, con l’eccezione delle primarie 2012, si preferisce trionfare con plebisciti dell’80 per cento in cui tutti camuffano se stessi anziché accogliere la logica della sfida aperta. Non è una tendenza in contraddizione con la vocazione maggioritaria che dovrebbe ispirarlo?
Probabilmente i suoi rappresentanti pensano che i confronti aspri ed espliciti si possano fare solo con l’avversario politico: maggioritari verso l’esterno, consociativi verso l’interno. Attenzione però. Non è che nel Pd vi siano visioni strutturate che non osano scontrarsi. La realtà è che non esistono vere idee in competizione fra loro, ma solo diverse ideologie, sensibilità, luoghi comuni. Soprattutto diversi clan e sotto-clan, tribù e sotto-tribù. Le idee sono un’altra cosa, che appartiene al passato.
La mentalità unanimistico-assembleare e il mito dell’unità intangibile del partito è più forte nel gruppo dirigente o nel “popolo del Pd”?
La mia impressione è che l’unanimismo sia soprattutto un vizio dell’apparato, mentre i militanti discutono e litigano assai più volentieri. Ma non si tratta di differenze psicologiche: l’unanimismo è il mezzo con cui coloro che vivono di politica si assicurano contro il rischio. Non è un modello culturale, è una semplice polizza che minimizza le incertezze del mestiere politico. Se sei un semplice militante puoi litigare con chi vuoi, ma se il tuo stipendio, la tua carriera, il tuo status, le tue relazioni e le tue opportunità dipendono dal partito sei indotto ad andarci piano. In politica, la prudenza è la “virtù obbligatoria” di chi dipende troppo dagli altri.
La ragione delle numerose adesioni degli esponenti del vertice del Pd risiede nella vaghezza programmatica incarnata dal primo cittadino del capoluogo toscano, utile a racimolare consensi ma non a governare con scelte limpide e radicali?
La fragilità programmatica è la forza di Renzi. Se ripetesse con convinzione le parole coraggiose che disse all’esordio nel discorso di Verona, se si presentasse ai dibattiti sulla disoccupazione a fianco di Ichino, Matteo non potrebbe conquistare il Partito democratico. Renzi è il contrario di Tony Blair. Per il sindaco di Firenze l’obiettivo prioritario non è cambiare la politica del Pd: è cambiarne il gruppo dirigente.
Teme una vittoria del trasformismo e del gattopardismo in grado di neutralizzare la potenzialità innovatrice della sua campagna 2012?
Trasformismo e gattopardismo hanno già vinto. E hanno vinto perché la determinazione del ragazzo, la sua voglia di imporsi, la sua spregiudicatezza hanno spaventato un partito i cui membri non sono capaci di combattere a viso aperto. Ricordi la penosa vicenda dell’impallinamento di Romano Prodi nelle votazioni per la Presidenza della Repubblica.
Renzi è destinato a ripercorrere nel fronte progressista le orme e i fallimenti di Silvio Berlusconi, figura seducente e camaleontica che attrae consenso ma priva di autentiche convinzioni, del coraggio di riforme radicali, di una visione di ampio respiro, di puntualità e rigore negli obiettivi?
Mi spiace dirlo, ma il Cavaliere ha sempre avuto più idee di Renzi. Il berlusconismo non è mai stato vuoto o povero di contenuti, come giustamente sottolineato dallo storico Giovanni Orsina nel suo libro “Il berlusconismo nella storia d’Italia”. Il problema è che le idee sono state vanificate dalle vicende giudiziarie del capo e dalla fame di poltrone della maggior parte dei suoi sottoposti. Con Renzi sarà molto diverso ma, temo, non molto meglio che con Berlusconi. Meno guai giudiziari, un ceto politico più presentabile, ma idee coraggiose poche. Avere idee è rischioso, e Matteo è il primo a saperlo.