L’ennesimo attacco violento dei No Tav, responsabili di un attentato incendiario in Val Susa durante la visita del ministro dei Trasporti Maurizio Lupi, ha trovato forse per la prima volta il giusto spazio sulla stampa.
Sui giornali di questi giorni sono pullulati commenti e interviste. Due di queste, entrambe critiche verso il movimento in modo differente sono state pubblicate da Repubblica che ha sentito lo storico Giovanni De Luna e il filosofo ed ex sindaco di Venezia, Massimo Cacciari.
È facile riscontrare come, nelle parole di entrambi, ci sia una ferma condanna dell’uso della violenza da parte dei manifestanti (diversamente da quanto era avvenuto nei giorni scorsi con lo scrittore Erri De Luca, che ha dichiarato giusti i sabotaggi alla Torino-Lione, guadagnandosi insieme ad altri l’appellativo di “cattivo maestro”).
Ma mentre De Luna sostiene di “condividere molte motivazioni della lotta in Val Susa“, Cacciari pone l’accento su come “in democrazia le decisioni si rispettino” e che non possano essere oggetto di “un’assemblea permanente“.
Poche righe, quelle del filosofo veneziano, che potrebbero efficacemente costituire il fulcro programmatico di quella ripartenza economica che l’Italia attende da tempo e che sembra utopistica e irraggiungibile proprio a causa della mancanza di coesione che attraversa oggi il Paese.
No Tav, ma anche No Muos, No Triv, No Tap…: sono queste le sigle che raccontano meglio di ogni altra cronaca lo stato di incertezza e arretratezza in cui versa oggi l’Italia.
Perché – come avvenuto in Val Susa ma non solo – quando si oltrepassa il muro della lecita protesta per imporre le proprie idee con la violenza, si fa un danno all’intera nazione e non solo alla propria comunità di appartenenza. Un danno allo Stato di diritto, alla libertà d’impresa e alla possibilità che da un dibattito franco e tecnico si dia il via alle infrastrutture che servono al nostro Paese per affrontare le sfide del futuro e che non possono essere frenate da immotivate sindromi Nimby.
Cosa deve accadere prima che nel dibattito pubblico si torni ad esprimersi unanimemente contro la violenza e a favore dello sviluppo e della crescita?
Quanto tempo dovrà passare perché le opere strategiche per l’interesse nazionale rimangano fuori dalla logorante e continua contesa politica?
E soprattutto, perché non si dice chiaramente che non è più tempo di tollerare minacce “mafiose”, assalti, oltraggi e battaglie contro lo Stato e che legalità e sviluppo viaggiano di pari passo?